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Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto sulla vicenda dei rohingya. Accusando direttamente i militari del Myanmar.
A diversi anni distanza dall’inizio del massacro dei rohingya da parte dell’esercito del Myanmar (ex Birmania), una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite lancia accuse gravissime nei confronti delle autorità della nazione asiatica. “Gli alti responsabili militari, compreso il capo di stato maggiore, generale Min Aung Hlaing, devono essere processati per genocidio”, spiega il documento pubblicato lunedì 27 agosto.
Leggi anche: Un anno dall’esodo dei rohingya, la minoranza etnica perseguitata che non ha cittadinanza
Le indagini sono state condotte da Marzuki Darusman, ex procuratore generale indonesiano, assistito da due esperti: una singalese e un australiano. Nel loro rapporto hanno fatto anche il nome del generale Soe Win: è lui che ha diretto le due divisioni di fanteria, la 33esima e la 99esima, considerate colpevoli dei crimini efferati (comprese violenze sessuali) che hanno portato all’esodo dei rohingya.
Why would any Rohingya refugee think it’s safe to return home when the Myanmar commanders who directed their slaughter, rape, and ethnic cleansing a year ago have enjoyed complete impunity, starting with the guy at the top, Senior General Min Aung Hlaing. https://t.co/38XSjDBYsY pic.twitter.com/ERHt1FE6ud
— Kenneth Roth (@KenRoth) 26 agosto 2018
Proprio a causa di tali comportamenti brutali, infatti, il 25 agosto di un anno fa 706mila persone fuggirono in Bangladesh. “Sommate alle oltre duecentomila persone che erano già scappate a seguito di precedenti ondate di violenza, sono oggi oltre 919mila i rohingya che vivono nel distretto di Cox’s Bazar”, sottolinea Medici senza frontiere. Che ha di recente quantificato in circa diecimila il numero di persone facenti parte della minoranza etnica musulmana che sono state uccise, dall’ottobre del 2016 ad oggi, dall’esercito birmano.
Ma il rapporto delle Nazioni Unite cita anche crimini che sarebbero stati commessi dai militari in altre aree di conflitto, in particolare negli stati di Kachin e Shan, nei confronti di gruppi separatisti. Inoltre, sulla vicenda dei rohingya anche alla consigliera di stato Aung San Suu Kyi vengono attribuite responsabilità, sebbene indirette. La leader birmana, secondo gli esperti delle Nazioni Unite, non avrebbe “utilizzato la propria posizione di capo del governo de facto, né la propria autorità morale, per contrastare e impedire i fatti”.
Già da tempo, inoltre, nei confronti dei militari e dirigenti del Myanmar si moltiplicano le azioni di contrasto da parte della comunità internazionale. Il 25 giugno, l’Unione europea e il Canada hanno annunciato il divieto di accesso sui propri territori per sette ufficiali dell’esercito e delle forze dell’ordine. Si tratta, infatti, di “persone non gradite”. Il 18 agosto, poi, anche gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni simili nei confronti di tre generali birmani, nonché di un comandante della polizia di frontiera.
Difficile però immaginare che, al di là del rapporto, possa arrivare una condanna direttamente dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Come sottolineato dal quotidiano francese Le Monde, infatti, è probabile che Cina e Russia, che forniscono armi al Myanmar, pongano un veto di fronte ad una risoluzione che segua la linea indicata da Darusman.
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