Con l’uccisione di Shireen Abu Akleh la Palestina perde la sua voce più importante

La giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, di Al Jazeera, è stata colpita a morte a Jenin. Prove e testimonianze mostrano che a sparare sono stati i soldati israeliani.

Shireen Abu Akleh era una delle più importanti giornaliste presenti nei territori palestinesi, inviata del media internazionale Al Jazeera. È morta mentre documentava un blitz israeliano in un campo profughi di Jenin e a sparare sarebbero state proprio le forze di sicurezza di Israele, secondo quanto confermato dalla stessa Al Jazeera e da diversi testimoni sul campo, mentre sull’episodio è stata annunciata un’indagine indipendente.

Una manifestazione in Cisgiordania, Palestina
Una manifestazione in Cisgiordania, Palestina © Fatima Shbair/Getty Images

Una morte che avviene in un momento di crescente tensione nell’area della Cisgiordania tra la popolazione palestinese e le forze israeliane. E che costringe ad aggiornare il tragico bilancio dei giornalisti che hanno perso la vita sul territorio.

La crescita della tensione tra Israele e Palestina

Tra Israele e Palestina è in corso uno dei periodi di maggiore tensione di sempre. Proprio un anno fa si è verificata la peggiore crisi dell’ultimo decennio, dopo che le proteste reiterate da parte della popolazione palestinese per lo sgombero di alcune famiglie per mano degli occupanti israeliani nel quartiere di Gerusalemme est di Sheikh Jarrah avevano portato a un’ondata repressiva ordinata da Tel Aviv, culminata con pesanti scontri nella Spianata delle moschee, un luogo sacro per i musulmani palestinesi.

Il gruppo politico-militare palestinese Hamas e altre milizie avevano reagito lanciando alcuni razzi in territorio israeliano, intercettati dallo scudo Iron Dome. E la risposta di Tel Aviv non si era fatta attendere, con due settimane di bombardamenti su Gaza che avevano ucciso centinaia di civili, tra cui donne e bambini, colpendo anche scuole, presidi medici e sedi giornalistiche. Nel corso dell’estate scorsa ci sono stati nuovi bombardamenti sulla striscia di Gaza più saltuari, in risposta al lancio di palloncini incendiari dal lato palestinese. Nei mesi successivi la tensione è rimasta alta e a settembre 2021 sei prigionieri palestinesi condannati per terrorismo sono evasi dal carcere israeliano di massima sicurezza di Gilboa. “Una notizia che rompe, nell’immaginario del paese, il mito dell’essere protetti dal proprio sistema militare e di polizia”, scrive Paola Caridi su Valigia Blu.

Gli evasi sono stati catturati attraverso operazioni a tappeto nelle settimane successive, ma la sfiducia generata nel paese dall’evasione ha portato a reagire in modo più deciso ogni qual volta si siano verificati nuovi incidenti e attentati, tanto per prevenirli quanto per mandare un messaggio alla nazione. Mentre ad aprile le forze di sicurezza israeliana hanno usato il pugno di ferro nella Spianata delle moschee in risposta al lancio di alcune pietre, entrando in massa perfino nella moschea di Al Aqsa e lanciando granate e lacrimogeni, un’escalation di attentati di matrice araba in territorio israeliano e in quello palestinese occupato dai coloni ha fatto tornare un sentimento di insicurezza generalizzato. In particolare, nelle ultime settimane sono morti 21 israeliani in queste circostanze, vittime di attacchi da parte di lupi solitari più che di agenti di una strategia su larga scala. E il pugno duro di Israele nei territori palestinesi non si è fatto attendere.

L’uccisione di Shireen Abu Akleh

L’11 maggio all’alba l’esercito israeliano ha dato il via a un’operazione nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. L’obiettivo era sempre lo stesso, dare la caccia ai collaboratori degli attacchi avvenuti contro cittadini israeliani nelle ultime settimane e in generale intercettare eventuali cellule terroristiche, lanciando al contempo un messaggio di forza a tutto il popolo palestinese dell’area. 

A documentare il blitz c’erano anche alcuni giornalisti, tra cui la palestinese Shireen Abu Akleh. Nata a Gerusalemme 51 anni fa da una famiglia cattolica, dopo la laurea in giornalismo in Giordania si era trasferita negli Stati Uniti, dove aveva ottenuto la cittadinanza. Tornata in Palestina, aveva collaborato per diversi media locali per poi legarsi da ormai 25 anni al network internazionale Al Jazeera. Shireen Abu Akleh era considerata una delle voci narranti più importanti in un territorio dove tra restrizioni agli spostamenti, bombardamenti, difficoltà logistiche varie e bavagli di ogni tipo è sempre molto difficile fare giornalismo. Ed era anche un modello femminile in un’area dove alle donne sono precluse gran parte delle cose che siamo soliti considerare normali, compresa la possibilità di viaggiare da sole.

“Conosco molte ragazze che sono cresciute stando in piedi davanti a uno specchio tenendo le spazzole per capelli come microfono e fingendo di essere Shireen. Ecco quanto è stata importante la sua figura”, ha detto una collega giornalista. Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, l’ha invece definita “una leggenda del giornalismo”.

Una manifestazione in Cisgiordania, Palestina
Una manifestazione in Cisgiordania, Palestina © Fatima Shbair/Getty Images

Shireen Abu Akleh è morta l’11 maggio dopo essere stata colpita in fronte da un proiettile proprio durante il blitz israeliano nel campo profughi di Jenin e nonostante indossasse il classico giubbotto con la scritta “Press”. Da Tel Aviv subito è stato puntato il dito contro i palestinesi, sostenendo che la giornalista sia stata uccisa dagli spari rivolti contro i militari israeliani da parte di alcuni abitanti palestinesi del campo. È stato diffuso anche un video al riguardo dalle autorità israeliane, in cui si vede effettivamente un uomo palestinese sparare. Ma il fact-checking ha dimostrato che il luogo e l’orario non hanno niente a che fare con quello in cui è stata colpita Shireen Abu Akleh. 

Ali al Samoudi, un giornalista che era con lei e che è stato ferito alla schiena da un altro proiettile, ha dichiarato che non era in corso una resistenza militare palestinese quando è avvenuto il fatto. Una versione confermata anche da diversi testimoni sul terreno e che ha portato Al Jazeera ad annunciare che a sparare sono stati i soldati israeliani, in quella che appare come una vera e propria esecuzione. Reporter senza frontiere, tra i principali organismi internazionali a difendere la libertà di informazione e la libertà di stampa, ha parlato di una possibile violazione della convenzione di Ginevra e ha chiesto un’indagine indipendente. 

Intanto il 13 maggio le forze di sicurezza di Israele hanno represso con la violenza il corteo funebre con la bara di Shireen Abu Akleh per le vie di Gerusalemme Est. Sono state lanciate granate, gas lacrimogeni e le persone che trasportavano il feretro sono state prese a manganellate. Secondo quanto riporta Al Jazeera, i soldati israeliani hanno strappato le bandiere palestinesi mentre ai partecipanti al corteo è stata chiesta la religione di appartenenza: i cristiani potevano restare (la giornalista era di famiglia cattolica), mentre i musulmani sono stati cacciati. 

Una strage di giornalisti

L’uccisione di Shireen Abu Akleh non è un fulmine a ciel sereno ma l’ennesimo episodio che arricchisce la drammatica serie di giornalisti caduti per mano israeliana nei territori palestinesi.

Secondo Reporter senza frontiere, dal 2018 a oggi i giornalisti vittime di attacchi israeliani sono stati 140 e i morti sono 30 solo nel Ventunesimo secolo. L’agenzia di stampa Wafa parla di 83 operatori dell’informazione morti negli ultimi 50 anni, numeri imponenti se si pensa a quanto sia piccola l’area in cui tutto questo si è verificato.

E tra i caduti negli anni scorsi ci sono stati anche giornalisti italiani. È il caso di Raffaele Ciriello, giornalista freelance che si trovava nel 2002 in Cisgiordania per conto del Corriere della Sera e che è stato colpito a morte dai proiettili dei soldati israeliani. O di Simone Camilli, videogiornalista di Associated Press che nel 2014 è rimasto ucciso dall’esplosione di un missile israeliano nell’area settentrionale della striscia di Gaza. Qualche giorno fa è uscita la classifica annuale della libertà di informazione, realizzata da Reporter senza frontiera. Israele si è posizionata 86esima, a dimostrazione che il contesto locale per i media è molto difficile e distante dalla libertà. Le decine di giornalisti incarcerati nelle prigioni israeliane ne sono un’ulteriore conferma.

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