Torna dal 4 al 10 ottobre l’appuntamento con la Settimana mondiale dello spazio, istituita nel 1999 per celebrare i contributi che la scienza e le tecnologie a esso correlate hanno portato al miglioramento della condizione umana. Le date rappresentano due pietre miliari che segnano l’ingresso dell’umanità nel mondo spaziale: il 4 ottobre del 1957 fu lanciato Sputnik I, il primo satellite terrestre costruito da un essere umano, mentre il 10 ottobre del 1967 entrò in vigore il primo Trattato internazionale dello spazio. Negli ultimi anni la corsa allo spazio è ripresa con grande vigore, e al contempo si è animato il dibattito su uno dei temi più controversi: quello del suo impatto ambientale. Ogni lancio, infatti, emette nell’atmosfera ingenti quantitativi di CO2, vapore acqueo, fuliggine di carbonio, ossidi di azoto, cloro, ossido di alluminio e composti solforici; ci sono inoltre i grandi temi dei componenti che vengono fatti cadere sul nostro pianeta nelle fasi di ascesa e discesa e dei detriti spaziali lasciati in orbita nel corso di decenni di esplorazioni. Viaggi che nei prossimi anni sono destinati inevitabilmente ad aumentare con il probabile boom del turismo spaziale: secondo le stime dello University College di Londra e del Mit di Boston, la crescente industria delle spedizioni nello spazio potrebbe presto avere un impatto ambientale maggiore dell’intera industria aeronautica. Per fornire delle soluzioni concrete a queste problematiche, nel mondo ci sono diverse startup che stanno lavorando su vari fronti. Ne abbiamo selezionate sei.
Sei startup che vogliono rendere più sostenibili le spedizioni nello spazio
È il 2011 quando a Fino Mornasco, un piccolo paese in provincia di Como, un gruppo di giovani decide di affrontare l’allora pioneristico tema delle esigenze logistiche del mercato spaziale. Oggi D-Orbitconta oltre 200 dipendenti e opera con uffici in Italia, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti; e il suo impegno nel perseguire modelli di business redditizi, socialmente vantaggiosi e soprattutto rispettosi dell’ambiente, gli ha consentito di diventare la prima azienda spaziale certificata B-Corp al mondo.
Con l’obiettivo essenziale di ridurre gli sprechi spaziali, D-Orbit aiuta le imprese a massimizzare in modo sostenibile le opportunità di fare affari nello spazio. A partire proprio dalla riduzione dei rifiuti – viti in disuso, bulloni e satelliti non funzionanti – che occupano in maniera sempre più considerevole l’orbita bassa, compresa tra i 300 e i 1.000 chilometri di altezza. Dopo aver mosso i primi passi come startup deputata alla costruzione di sistemi per la raccolta di satelliti e attrezzature giunte al fine vita, D-Orbit ha allargato il campo di azione a tutto il mondo della logistica spaziale, grazie anche a tecnologie sviluppate internamente che consentono agli operatori satellitari di lavorare in maniera più efficace.
Recentemente D-Orbit ha deciso, alla luce delle particolari condizioni del mercato, di fermare la quotazione sul Nasdaq che, attraverso una fusione con una Spac (Società di acquisizione a scopo speciale), l’avrebbe trasformata nel primo unicorno italiano del nuovo decennio, superando la valutazione di un miliardo di dollari. Ma il progetto sembra solo rimandato anche perché i ricavi sono in vertiginosa ascesa e sono passati in un solo anno da 3,4 a 11 milioni.
CisLunar Industries
Dalla provincia di Como a Denver, capitale del Colorado, ecco un’altra realtà che ha trasformato la riduzione dei detriti spaziali in business. Fondata nel 2017, CisLunar Industriessi concentra sulla lavorazione e sul riciclo dei metalli nello spazio per ridurre al minimo gli scarti. Utilizzando la tecnologia del forno a levitazione elettromagnetica – controllata da remoto attraverso un computer – la startup statunitense riesce a fornire agli operatori satellitari il riciclaggio e il riutilizzo senza contatto dei detriti spaziali metallici.
CisLunar Industries utilizza materie prime metalliche di diversa provenienza: dai detriti spaziali riciclati in orbita alla regolite lunare (il materiale fine e polveroso che ricopre gran parte della superficie del nostro satellite), fino a sostanze provenienti dagli asteroidi e a materie prime sfuse di origine terrestre. Oltretutto, la tecnologia della startup è estremamente versatile e capace di operare su qualsiasi piattaforma, che si tratti di una stazione, di un veicolo spaziale, di un rover o di una base lunare.
Astroscale
A Sumida, uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo, opera invece una startup nata nel 2013 per creare sistemi spaziali sostenibili e mitigare il pericolo dell’accumulo di detriti nello spazio. Il team è composto da oltre 250 persone – il 75 per cento dei quali ingegneri – che si dividono tra la sede centrale in Giappone e le filiali nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Israele e a Singapore. Società di venture capital in rapida espansione, Astroscale sta sviluppando soluzioni innovative incentrate sulla manutenzione in orbita dei moduli spaziali: estensione del periodo di vita, conduzione più sostenibile delle operazioni a bordo, gestione del fine vita e rimozione attiva dei detriti.
All’impegno tecnologico teso a semplificare l’attracco e la rimozione dei detriti spaziali, si affianca quello istituzionale, con un team dedicato al confronto costante con i responsabili politici, i decisori nei governi di tutto il mondo e i soggetti commerciali interessati a investire nello spazio; l’obiettivo è quello di sviluppare norme e incentivi per un uso responsabile dello spazio, che diano vita a licenze normative in grado di promuovere un ambiente e un mercato sostenibili.
Sidereus Space Dynamics
Ha solo 20 anni Mattia Barbarossa, che nel 2019 ha fondato a NapoliSidereus Space Dynamics, specializzata nella realizzazione di veicoli spaziali innovativi e – potremmo azzardare – “democratici”. L’obiettivo, infatti, è quello di creare satelliti che consentano spedizioni nello spazio meno costose, più semplici e più sostenibili. Eos, il prototipo di lanciatore orbitale progettato dalla startup, è alto poco più di 3 metri contro i 17 del più piccolo lanciatore convenzionale finora in uso; pesa circa un decimo rispetto ai competitor sul mercato anche perché è assemblato con metalli e leghe decisamente comuni quali il nichel, l’acciaio e l’alluminio.
Altre due particolarità lo rendono unico. La prima è che si tratta di un razzo “single stage to orbit”: le sue parti non si separano durante il volo, rendendo possibile il ritorno sulla Terra per ovviare al problema dei detriti spaziali. La seconda è che viene alimentato da biocarburanti derivati da prodotti organici fermentati, per abbattere il crescente livello di emissioni dei veicoli in partenza verso lo spazio.
Pale Blue
Sempre a proposito di carburanti, un’altra realtà giapponese nata nel 2020 – Pale Blue – si è concentrata sul tema della mobilità spaziale sostenibile e ha scelto di adottare l’acqua come propellente. La startup utilizza la tecnologia brevettata di risonanza del ciclotrone elettronico (un acceleratore di particelle elementari cariche elettricamente) per generare plasma d’acqua, utilizzato come fonte di alimentazione per il proprio satellite.
Did you know why we use water as a propellant?Pale Blueはなぜ水を燃料として使うのか?#WisdomWednesday #water #satellites #thrusters #propulsionsystems #space #spacetech
Dopo un lungo lavoro i ricercatori sono riusciti a miniaturizzare questo processo, che ora può soddisfare in modo flessibile le esigenze di propulsione di un’ampia gamma di satelliti senza compromettere il livello di prestazioni, aspetto che per tanti anni hanno reso la propulsione ad acqua impraticabile per le spedizioni nello spazio. Lo spazio – è la filosofia dei fondatori – è già uno degli ambienti più inospitali che conosciamo: se continueremo a utilizzare propellenti come l’idrazina che è altamente tossica, non diventerà mai veramente accessibile agli esseri umani in modo diffuso.
Space V
La conquista sostenibile dello spazio passa anche attraverso l’agricoltura. A questo obiettivo lavora Space V, spin-off dell’università di Genova che si occupa di sviluppare serre innovative per la coltivazione di piante nelle stazioni orbitali e nei futuri insediamenti lunari e marziani. La startup è titolare dei brevetti internazionali dell’Adaptive multilayer greenhouse, un sistema che massimizza l’efficienza nella produzione di alimenti vegetali freschi negli insediamenti spaziali.
La caratteristica distintiva di questa tecnologia è la capacità di modificare progressivamente la distanza tra i ripiani di coltivazione della serra verticale in base al livello di crescita delle piante, mantenendo microclimi distinti per ogni ripiano: in questo modo si eleva al massimo la resa produttiva e al contempo si abbatte notevolmente il consumo energetico complessivo. Dallo spazio alla terra, produrre cibo con un minimo consumo di acqua ed energia potrebbe consentire nel prossimo futuro di rendere coltivabili anche particolari contesti del nostro Pianeta, dai deserti ai ghiacciai, per venire incontro alla crescente domanda di cibo connessa all’aumento della popolazione mondiale.
Dal 2027 le norme europee renderanno obbligatorio il passaporto digitale per quasi tutte le batterie dei veicoli elettrici: più attenzione all’ambiente e ai diritti umani.
L’impennata dei consumi energetici dovuti allo sviluppo dell’intelligenza artificiale fa ripartire persino la centrale di Three Mile Island, famosa per il disastro nucleare peggiore degli Stati Uniti.
Il prodotto è fatto in nylon riciclato e il prezzo sul mercato è di 29,99 euro. Per la loro invenzione gli studenti hanno già vinto un premio che ripaga gli sforzi.