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Una unicorn company è una startup che supera il valore di 1 miliardo di dollari prima ancora di entrare in Borsa, come Uber, Spotify, Whatsapp. Una schiera miliardaria che cresce esponenzialmente.
Una unicorn company è una startup valutata oltre 1 miliardo di dollari, ancora posseduta da chi l’ha fondata, non ancora quotata in Borsa. Una valutazione stratosferica che s’ottiene sommando diversi fattori, non senza rischi, che premia spesso la capacità di scardinare le consuetudini (non solo commerciali). Ce ne sono 176 oggi al mondo: una crescita impressionante, rispetto alle 39 del 2013.
S’è fatta sempre più affollata la schiera delle unicorn company, nel 2016. Si nota solo un lieve rallentamento del passo, dato che nel Q3 del 2015 se ne sono aggiunte 25 e “solo” 10 nel Q2 del 2016. Ma la portata esplosiva del fenomeno è acclarata. In tutto a settembre si contano 176 unicorn company, globalmente.
L’anno scorso Mark Suster di Upfront Ventures, pubblicando il rapporto Venture Outlook 2016, s’è accorto del frenetico aumento del numero di startup non quotate che tagliavano il traguardo del miliardo di dollari di valutazione. Per dare una rappresentazione concreta a quest’idea è stata creata una prima infografica nell’ottobre 2015 – che è appena stata aggiornata a settembre 2016.
Secondo gli analisti, non è facilissimo spiegare solo con elementi razionali il motivo per cui Uber si valuta 40 miliardi di dollari o Airbnb 20. Occorre un’interpretazione anche creativa, dato che le tech companies private non hanno dati storici per ipotizzare proiezioni né, come Snapchat, alcuna significativa revenue. Ma, spesso, sono disruptive.
Quasi tutte queste unicorn company appartengono al mondo hi tech o si fondano su app e software innovativi per la ridistrubuzione di informazioni, servizi e prodotti, moltissime incorporano un forte richiamo alla sburocratizzazione, alla sostenibilità, all’economia circolare o alla sharing economy.
Quando un’innovazione ridefinisce radicalmente i ruoli nel sistema produttivo delle imprese, il concetto di valore per il cliente, i modelli di business delle aziende stesse, si chiama disruptive.
Un’innovazione è disruptive – spiegava già nel 1995 Clayton Christensen in Disruptive Technologies: Catching the Wave (Harvard Business Review) – quando introduce un approccio, un’ottica, un’insieme di funzionalità totalmente nuove e quasi sempre lontane dal mercato del momento. Novità spiazzanti, che portano a riscrivere la mappa del consueto, plasmare un mercato nuovo e affossare il vecchio, riprogettare un prodotto o servizio verso una maggior semplificazione e democratizzazione, un aumento dell’accessibilità, la riduzione dei costi e anche maggior piacevolezza, desiderabilità, adeguatezza.
Nel 2013 il fondatore di Cowboy Ventures, Aileen Lee, conia su TechCrunch la definizione di unicorn company: “39 aziende appartengono a quello che chiamiamo ‘Unicorn Club’, che per nostra definizione è un’azienda di software basata negli Usa, fondata dopo il 2003 e valutata oggi oltre 1 miliardo di dollari dal mercato o dagli investitori”.
La definizione è piaciuta. E si è estesa alle startup di tutto il mondo (a oggi, 37 sono cinesi e le ultime arrivate provengono pure da Canada, Giappone, Indonesia, India, Germania, Francia… e no, nessuna italiana). Poi, non si occupano solo di software ma anche di telecomunicazioni, servizi e sharing economy. Che a ben vedere comunque sul software, sulle app o sui nuovi strumenti di condivisione fondano le premesse – e le promesse – del loro successo.
Tanto è vero che due anni dopo, nel 2015, Fortune riprende il concetto aggiornando le cifre nell’articolo di Erin Griffith e Dan Primack The Age of Unicorns: “Sono chiamate unicorni, aziende private valutate 1 miliardo o più. Le startup tecnologiche che si pensava appartenessero a mondi mitologici sembra che ora siano dovunque, sostenute da un mercato ottimista e da una nuova generazione di tecnologie disruptive. Non è passato molto tempo da quando si pensava che l’idea di una startup da oltre 1 miliardo prima della quotazione pubblica in Borsa fosse pura fantasia. Google non è mai arrivata a valere 1 miliardo come azienda non quotata. Nemmeno Amazon. Né alcun’altra matricola delle vecchie classi delle dotcom. Invece oggi il settore tecnologico è affollatissimo di startup miliardarie”.
Nel 2015, scandagliando in modo ampio il panorama, Fortune era riuscita a censire oltre 80 startup valutate 1 miliardo o più dai venture capitalist. E dato che queste aziende sono gestite privatamente, sicuramente alcune sono sfuggite al loro rilevamento. Ora, un anno dopo, sono già raddoppiate.
Anche il Wall Street Journal, insieme a DowJones VentureSource, ha pubblicato una classifica interattiva delle imprese innovative più valutate ad aprile 2016, ed erano 145. La cifra oggi raggiunta è 176. L’impennata del numero delle unicorn company s’è dunque verificata rapidamente e senza molto preavviso.
Sarah Frier ed Eric Newcomer di Bloomberg ci vanno ben più cauti, nell’ispida analisi The Fuzzy, Insane Math That’s Creating So Many Billion-Dollar Tech Companies.
Le startup raggiungono valutazioni astronomiche in cambio di un trattamento di favore dei nuovi investitori. Snapchat, l’applicazione di instant messaging la cui raccolta di soldi s’aggira sui 15 miliardi di dollari, probabilmente in realtà non vale più di Clorox o di Campbell Soup. Quindi, come hanno fatto gli investitori ad arrivare a quel numero da titolone a nove colonne?
Per le startup più mature, gli investitori potrebbero acconsentire a concedere valutazioni più elevate, che aiutano le aziende a reclutare il personale più qualificato e a costruirsi una credibilità, in cambio di garanzie che riavranno i loro soldi indietro prima se la società va in Borsa o si vende. Possono anche negoziare azioni gratuite aggiuntive qualora i successivi round di raccolta fondi fossero meno favorevoli, aumentando così la loro quota. Gli accordi di corridoio stanno diventando più comuni proprio mentre le aziende tecnologiche rimangono private più a lungo, secondo interviste e documenti finanziari ottenuti da Bloomberg Business.
“Queste enormi cifre non contano moltissimo – speiga Randy Komisar della Kleiner Perkins Caufield & Byers – sono solo ipotesi di metà percorso, che vanno ricalibrate e adattate nel corso del tempo”. Contabilmente, la soglia di 1 miliardo di dollari per le unicorn company è dunque una variabile temporanea, parte di un’equazione alimentata da molti altri fattori: quote di mercato, proiezioni di crescita, valore dei competitor, perfino l’immagine pubblica del fondatore. Per di più, la valutazione è autostabilita e va continuamente negoziata con stime che ovviamente tendono a premiare l’afflusso di soldi freschi da nuovi investitori. Cosa che a volte avviene a spese dei primi impiegati e dei primi azionisti, le cui quote si diluiscono e si minimizzano per far spazio ai nuovi arrivati.
Però, la lievitazione così rapida del valore attribuito a una startup, tale da proiettarla in questa sempre più affollata schiera di unicorni avendo attratto soldi e curiosità sia dal pubblico che dagli investitori, non si può spiegare solo con accordi di corridoio o tecnicismi peritali.
C’è alla base di tutto un’inedita tensione sociale, un’aspettativa pubblica, una voglia febbrile di riscrivere le regole, di reperire nuove soluzioni più intelligenti di quelle attuali, ed è interessante notare che in moltissimi casi questo fermento globale coincide con la richiesta di nuovi modelli organizzativi, più efficienza, più sostenibilità, più condivisione.
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