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Stefano Liberti. Come i signori del cibo stanno affamando la terra
In Cina vivono 700 milioni di maiali, uno ogni due abitanti. Pari alla metà di tutti i suini allevati al mondo. Per sfamare questi animali che vivono chiusi in gabbie all’interno di capannoni industriali, Pechino importa ogni anno 80 milioni di tonnellate di soia, soprattutto dall’America Latina, in particolare dall’Amazzonia brasiliana dove le sconfinate monoculture
In Cina vivono 700 milioni di maiali, uno ogni due abitanti. Pari alla metà di tutti i suini allevati al mondo. Per sfamare questi animali che vivono chiusi in gabbie all’interno di capannoni industriali, Pechino importa ogni anno 80 milioni di tonnellate di soia, soprattutto dall’America Latina, in particolare dall’Amazzonia brasiliana dove le sconfinate monoculture di questa leguminosa stanno distruggendo uno dei luoghi con il più alto tasso di biodiversità sulla Terra. Proprio la soia, che una volta era una delle coltivazioni che caratterizzavano l’impero cinese. Il quadro testé descritto è solo l’inizio del viaggio che il libro I signori del cibo del giornalista e scrittore Stefano Liberti fa compiere al lettore. Un quadro che evidenzia come il sistema alimentare sia ormai diventato – sfortunatamente – una branca della finanza che ha deciso di puntare sul business della crescita demografica (overpopulation business, la previsione è di 9 miliardi di abitanti nel 2050 a fronte dei 7,4 miliardi di inizio 2017) dopo lo scoppio della bolla del mercato immobiliare. In questa intervista Liberti svela i retroscena di questo reportage d’altri tempi che lo ha portato per due anni in giro per il mondo per ricostruire la filiera di quattro cibi simbolici di questo fenomeno tutt’altro che sostenibile.
Come nasce I signori del cibo?
Ho iniziato a pensare a ‘I signori del cibo’ mentre lavoravo a ‘Land grabbing’, soprattutto quando ho cominciato a notare la presenza di gruppi estranei al sistema agroalimentare nel processo di acquisizione delle terre. Come gruppi finanziari o multinazionali di vario genere. In particolare, ho notato un interesse volto al controllo dell’intera filiera, dalla produzione alla trasformazione, alla commercializzazione. Così ho cercato di seguire la filiera di quattro prodotti paradigmatici, tra i più consumati al mondo: la carne di maiale, la soia (che è anche mangime per i maiali), il tonno in scatola e il pomodoro concentrato. Per ricostruire la filiera ho viaggiato in giro per il mondo e ho incontrato diverse persone, come il piccolo produttore schiacciato dal grande industriale che fa economia di scala. La tesi finale del libro è che molti meccanismi in atto oggi non sono assolutamente sostenibili nel lungo periodo.
Cos’è e come funziona il fenomeno dell’overpopulation business?
La mia suggestione iniziale, poi confermata dalla ricerca sul campo, è che quando il mercato azionario è entrato in crisi nel 2008, la speculazione si è spostata dal settore immobiliare a quello agroalimentare perché era considerato un investimento sicuro, un bene rifugio che avrebbe consentito di fare maggiori profitti, meno volatili, a fronte di una crescita demografica che vuol dire un conseguente aumento del fabbisogno alimentare. Il sistema è stato dunque “finanziarizzato” schiacciando verso il basso i costi e dando vita a industrie enormi che hanno fatto dell’economia di scala il loro obiettivo. E fagocitando i produttori più piccoli.
Come si inserisce in questo quadro l’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer?
Il direttore di Bayer, come altri imprenditori analoghi, pensa di poter sfamare il mondo attraverso un sistema chiuso, controllato in tutte le sue parti. Queste persone pensano di poter aumentare la produzione e di sfamare una popolazione in crescita costante. Ma questo modello non sembra essere sostenibile perché è di tipo estrattivo, sfrutta i territori al limite, come fossero infiniti, come fossero miniere d’oro. Ma così distruggono le terre dove vengono coltivate le monocolture o allevati i maiali e gli oceani dove vengono pescati i tonni. La concentrazione di potere e di ricchezza che si crea schiaccia ogni altro tipo di soggetto e standardizza i consumi. Tant’è che l’80-90 per cento dei prodotti sono controllati da pochi grandi gruppi. Ad esempio, le sementi vengono gestite sostanzialmente da tre aziende. E la stessa sorte sta colpendo il mercato della carne e del tonno.
La concentrazione di potere e il land grabbing sono correlati?
Non necessariamente. In realtà i gruppi che pesano nel mercato agroalimentare mondiale non si interessano alla fase produttiva, non si “sporcano” le mani. Preferiscono esternalizzarla, ad esempio forniscono sementi, fitofarmaci e pesticidi vari ai latifondisti brasiliani per poi occuparsi della commercializzazione del prodotto. Alle multinazionali non conviene acquisire le terre perché non fa parte del loro business e non conviene nemmeno economicamente. Il consumo di carne su scala industriale è insostenibile perché gli animali vengono chiusi in capannoni e isolati dall’ambiente. Ma la natura aveva previsto che questi esseri vivessero liberi, cibandosi di ciò che avrebbero trovato sulla loro strada. I loro escrementi avrebbero dovuto fungere da fertilizzante per il terreno: in natura non sono scarti. Al contrario, se tu chiudi i maiali in un capannone per aumentare la produttività, devi occuparti di come recuperare i mangimi, come la soia o il mais, generalmente coltivati dall’altra parte del mondo, e di come gestire le deiezioni che, da virtuose, si trasformano in scarti da smaltire. Negli Stati Uniti, in particolare in North Carolina dove questo modello è nato, si formano delle vere e proprie lagune di escrementi di fronte ai capannoni. Li ho visti personalmente sorvolandoli dall’alto, come racconto nel libro: sostanzialmente sono dei piccoli laghi pieni di merda che ogni tanto vengono svuotati spruzzando i liquami sui campi. In questo caso, però, il letame non rappresenta più concime per il terreno perché all’interno si trovano anche residui chimici, quali antibiotici e ormoni usati durante l’allevamento per non far ammalare il bestiame. Tant’è vero che questi laghi non sono marroni. Sono rosa.
Se questo sistema già non era sostenibile in America nonostante ci fossero ampie distese di terreni agricoli, esportarlo in Cina – ad esempio – ha significato anche importare le materie prime, quali il mangime. Questo significa far viaggiare milioni di tonnellate di soia dal remoto Brasile settentrionale, dove viene prodotta, fino in Cina laddove viene trasformata e data ai maiali. Il mondo ormai va immaginato come isole di allevamenti intensivi circondate da mari di soia e mais. Il problema è che i mari e le isole sono disconnessi tra loro. Il mio pensiero è che ci sono troppi movimenti di risorse irrazionali e ingiustificabili dal punto di vista della sostenibilità. Il tonno che mangiamo in Europa, ad esempio, lo importiamo dagli oceani Pacifico e Indiano e non lo prendiamo più dal mar Mediterraneo. Un conto è se si parla di “beni di lusso”, che sono tipici di un territorio, ma in questo caso si tratta di un prodotto che viene cacciato in alto mare dall’altra parte del mondo e, nonostante questo, la scatoletta nei nostri supermercati continua a costare solo 1 euro. Questo perché i grandi gruppi che fanno economie di scala. In questo modo schiacciano i piccoli produttori e portano avanti un modello esclusivamente estrattivo che ha un impatto molto più alto della stessa capacità riproduttiva dei tonni che sono destinati all’estinzione. Si tratta di una visione di breve periodo su cui i poteri pubblici non hanno più alcun controllo.
Questo sistema finora si è tenuto in piedi perché i grandi produttori non hanno trovato ostacoli in termini di profitto. Ha identificato un anello debole che potrebbe far crollare questo sistema chiaramente insostenibile?
Se tu vai in un supermercato e cerchi di capire da dove arriva un prodotto, non riesci a scoprirlo perché quasi mai sulla confezione è scritta la provenienza, né tantomeno dove viene trasformato. Il tonno che viene pescato in un atollo del Pacifico e subisce una prima lavorazione in loco, poi viene inviato in Tailandia o in Spagna per essere lavorato nuovamente e poi inviato nei vari paesi per essere venduto. Ma tutto questo non è scritto sul prodotto. Quindi è impossibile seguire un consumo consapevole. Il punto fondamentale è smettere di pensare al cibo come a una commodity. Il cibo racchiude in sé anche altri valori quali la qualità, il sapore, l’origine, la tradizione. Io non so se c’è un anello debole in questo sistema, ma il mio lavoro ha identificato una tendenza fatta di estremi. Io penso che l’ideale sarebbe far pagare di più il cibo nei paesi industrializzati e chiedere che le filiere siano più trasparenti. Quando il margine di profitto è ristretto, è facile cadere nel lavoro nero o in altre forme di produzione scorrette o sleali. Ecco perché una bottiglia di passata di pomodoro non può costare 40 centesimi. Basterebbero 30-40 centesimi in più per distribuirli sull’intera filiera e renderla virtuosa.
Chiudiamo con un’ultima riflessione sul land grabbing visto che, per lei, è da qui che tutto è partito. Ora che è stato inserito nella lista dei reati classificati come crimini contro l’umanità, si è fatto un’idea di come sia possibile regolarlo?
Ci vuole un’azione di sensibilizzazione dei governi direttamente coinvolti perché sono loro che danno i terreni in concessione, sono loro che devono raggiungere la consapevolezza per interrompere questo meccanismo di svendita. Ben venga, dunque, una pronuncia da parte della Corte penale internazionale se questa può servire ad aumentare la pressione in tal senso. Ma il vero cambiamento deve avvenire sul territorio, sono gli attori direttamente coinvolti che devono essere consapevoli delle conseguenze ambientali e sociali di questa pratica.
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