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Web tax in Italia: cos’è, come funziona e com’è cambiata
Aliquota dimezzata e niente e-commerce: la web tax arriverà ufficialmente in Italia nel 2019, ma sarà molto diversa dal previsto.
Doveva essere il metodo definitivo per far pagare le tasse nel nostro paese, una volta per tutte, anche ai giganti del web che hanno sede all’estero. Dopo innumerevoli discussioni e un lungo iter, è stata finalmente approvata con la legge di bilancio 2018, anche se con parecchie modifiche rispetto alla sua versione ufficiale. Andiamo ad analizzare nel dettaglio la web tax, per scoprire come funziona, quando entrerà in vigore e chi vi sarà soggetto.
Cosa è cambiato per la web tax
Il primo cambiamento di rilievo riguarda l’importo, che nell’emendamento depositato da Massimo Mucchetti del Pd era pari al 6 per cento ma ora è stato dimezzato, arrivando al 3 per cento. Questa tassa verrà applicata a tutti quei soggetti che superano le 3mila transazioni di servizi digitali all’anno (soglia che esclude automaticamente le piccole e medie imprese). La platea di “transazioni digitali” è stata ridotta in modo significativo, perché è stato depennato l’e-commerce. Tagliando fuori, così, un colosso come Amazon.
Nella prima versione si stabiliva che i clienti italiani di questi servizi web dovessero trattenere questo 6 per cento dalla fattura, versarlo all’erario e godere di un credito d’imposta di pari importo; con la nuova versione della tassa il credito d’imposta viene abolito e il 3 per cento viene prelevato con l’applicazione di una ritenuta alla fonte. Resta invariato il “giorno X” del lancio della web tax, fissato per il 1 gennaio 2019.
Web tax, perché resta un problema irrisolto https://t.co/okIXi0VRJ4 pic.twitter.com/KdmUSz4OWk
— AgendaDigitale.eu (@Agenda_Digitale) 10 gennaio 2018
Chi la critica e perché
Queste revisioni si sono attirate qua e là delle critiche, poiché avrebbero reso la norma molto meno incisiva nello stanare l’eventuale elusione fiscale da parte dei colossi del web. Il sito lavoce.info non usa mezzi termini: per com’è stata formulata, “pagano la web tax tanto le imprese italiane operanti nel settore quanto le imprese estere prive di stabile organizzazione in Italia”, “vengono eliminate le norme tese a rendere più penetrante l’azione dell’amministrazione finanziaria” oppure “volte a contrastare vere e proprie attività elusive”. In altri termini, sottolinea l’analisi, lo stato chiede alle aziende di dichiarare spontaneamente di aver superato le 3 mila transazioni digitali nell’anno precedente, ma non si dota di mezzi adeguati a smascherare bugie e inesattezze.
La #webtax italiana approvata definitivamente non centra l’obiettivo del riequilibrio fra il prelievo gratuito presso la nostra economia di risorse tassate solo all’estero. Dopo le modifiche della Camera si è trasformata in una misura per fare cassa.https://t.co/pqBSsAyvR8 pic.twitter.com/MaVgvxbMGz
— lavoce.info (@lavoceinfo) 11 gennaio 2018
La web tax piace agli italiani
Il 55 per cento degli italiani ritiene giusto tassare i profitti generati in Italia dai colossi del web; un altro 27,6 per cento crede che questo compito spetti all’Unione Europea o a un altro ente sovranazionale; soltanto il 17,5 per cento si dichiara totalmente contrario. È quanto emerge dal rapporto La cultura dell’innovazione, redatto da Agi e Censis. C’è da dire che i nostri connazionali, di fronte all’innovazione e al digitale, hanno un atteggiamento positivo ma critico. Se il 57 per cento degli italiani afferma che le innovazioni degli ultimi vent’anni hanno portato molti benefici, seppur con qualche piccolo problema, è vero anche che il 42,1 per cento ricollega automaticamente l’avanzata di automazione e robotica alla perdita di posti di lavoro. E c’è ancora un 15 per cento che storce il naso di fronte alla possibilità di comprare, vendere e prenotare beni e servizi online.
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