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Adriano Olivetti parlava di fabbrica come “produttrice di cultura e di sapienza”, intesa come sapere derivato – anche – dall’esperienza. I tecnici e ingegneri dell’azienda crearono già nel 1945 la prima calcolatrice scrivente al mondo, poi la prima macchina da scrivere elettronica al mondo, la ET 101, il primo Personal Computer – il Programma 101
Adriano Olivetti parlava di fabbrica come “produttrice di cultura e di sapienza”, intesa come sapere derivato – anche – dall’esperienza. I tecnici e ingegneri dell’azienda crearono già nel 1945 la prima calcolatrice scrivente al mondo, poi la prima macchina da scrivere elettronica al mondo, la ET 101, il primo Personal Computer – il Programma 101 – presentato alla Fiera di New York nel 1965, e successivamente uno dei primi veri computer portatili, l’M10, con alcuni programmi integrati e la capacità di collegarsi a computer remoti, soluzione estremamente innovativa per l’epoca.
Ma la Olivetti era – soprattutto – il primo e ancor’oggi ineguagliato laboratorio di Responsabilità Sociale d’Impresa, modello nel nostro paese e nel mondo intero. Scuole di formazione interne; borse di studio per i dipendenti desiderosi di continuare gli studi serali fino al diploma o alla laurea in qualunque materia; premi di produzione; asili nido aziendali per facilitare la conciliazione lavoro/famiglia; cura del territorio, dal quale traeva le risorse per il proprio successo d’impresa, riconoscendo il valore umano che era alla base delle sue intuizioni innovative e – di conseguenza – di una marginalità negli utili che oggi appare poco meno che incredibile, a conferma – ante litteram – che la CSR non è una pratica di charity o un mero strumento per le relazioni esterne, bensì un vero e proprio modello di business elevabile a dimensione strategica.
L’investimento di Olivetti – ricorda Fioretto, che è anche appassionato ricercatore di questa storia imprenditoriale unica – era anche in un’urbanistica d’avanguardia, dove la città diventava tessuto sociale nel quale i lavoratori e le loro famiglie potevano vivere una vita degna, gratificante, stimolante e di piena partecipazione al processo creativo e produttivo.
Coinvolse nella vita quotidiana dell’azienda filosofi, psicologi – non dimentichiamo che in Olivetti è nata la moderna psicologia del lavoro – sociologi e giornalisti, uno tra tutti Tiziano Terzani. Per Olivetti, lo sviluppo culturale della comunità era uno dei doveri di “restituzione” dell’azienda verso i suoi pubblici: resta ancora ineguagliata l’esperienza delle biblioteche e cineteche interne all’interno della fabbrica, dalle quali i lavoratori attingevano spesso e abbondantemente, ma aperte anche alla cittadinanza.
Ma vanno ricordati anche l’attenzione al recupero e all’inserimento in ruoli utili di chi veniva menomato da un incidente o da una malattia, la prima esperienza italiana di “scuola pubblica” con metodi pedagogici avanzatissimi, e la rete di trasporti aziendali che copriva “a tappeto” le valli del Canavese, costituendo un esempio virtuoso – decisamente in anticipo sui tempi – di attenzione all’aspetto ambientale della mobilità sostenibile.
Questi sono solo alcuni dei fattori che possono spiegare la persistenza fino ai giorni nostri del mito di Olivetti, più che mai attuale con riguardo alla profonda crisi che l’Italia e l’intero mondo occidentale attraversano in questo periodo, crisi che vede in buona parte tra le proprie cause endogene proprio una carenza della sensibilità e dei valori che erano la bandiera di Adriano Olivetti.
L’esperienza della fabbrica di Ivrea – multinazionale dell’elettronica arrivata a fatturati da capogiro, con decine di migliaia di dipendenti, leader in Europa nella produzione di computer, rispettata ovunque nel mondo per il proprio modello imprenditoriale e per l’elevatissima capacità d’innovazione tecnologica – naufragò, complice la morte prematura del suo fondatore, a causa di un mix tra necessità strategiche degli Stati Uniti, che non desideravano affatto lo sviluppo di un gruppo d’alta tecnologia in un paese “satellite” com’era all’epoca l’Italia, e necessità pragmatiche dei poteri forti di allora, servi per nulla sciocchi degli Usa: Mediobanca e Cuccia, e con loro Valletta e Fiat, la quale aveva nelle relazioni sindacali, con i lavoratori e con il territorio modelli esattamente opposti a quelli di Adriano Olivetti. Da questi “poteri forti” giunse il pollice verso che affossò colpevolmente un’esperienza industriale e umana di valore inestimabile, per privilegiare altri comparti industriali, e poco ci va a immaginare quali. All’assemblea della Fiat del 30 aprile del 1964, Valletta suono le campane a morte per l’Olivetti, dichiarando che “la società di Ivrea è strutturalmente solida, ma sul suo futuro pende una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico “. L’ultimo requiem fu quello suonato da De Benedetti, che chiamò a dirigere l’Olivetti Colaninno, il quale – tramite quel che restava dell’azienda – successivamente acquisì e sovra-indebitò il gioiello di Stato Telecom con una scalata definita dal Financial Times “una rapina in pieno giorno”, vicende che ben ci racconta Giuseppe Oddo ne L’affare Telecom, pubblicato da Sperling & Kupfer. Comunque, di ciò che restava dell’Olivetti i due fecero poi spezzatino.
Dell’Olivetti però – a dispetto della miopia di chi l’ha soffocata e uccisa – resta ancora qualcosa: oltre a tracce di archeologia industriale d’avanguardia recentemente inserite nella lista d’attesa per divenire “patrimonio dell’umanità” dell’Unesco, Ivrea è tutt’ora – quasi godendo di una specie di “onda lunga” della carica d’innovazione della fabbrica, che a distanza di anni ancora pregna il territorio – un distretto di forte innovazione tecnologica, con una netta vocazione alla sperimentazione industriale grazie a un tessuto attivissimo di piccole imprese e centri studi.
Come giustamente ricordava Piero Fassino, che ha aperto il convegno, ancor’oggi – sempre più raramente – nei necrologi sul quotidiano cittadino, sotto il nome e cognome del defunto, l’ultimo desiderio impone la scritta “Anziano Olivetti”. Un’affermazione identitaria, l’ultima, da lasciare nel ricordo dei propri cari, dopo aver passato due o tre decenni nella fabbrica, fieri della grande avventura vissuta affianco di quello che tutti i suoi uomini chiamavano affettuosamente “l’Ingegner Adriano”.
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