Dall’inizio di settembre l’estensione del ghiaccio marino artico ha subìto un netto calo, per arrivare il 15 settembre al suo minimo stagionale di appena 3,74 milioni di chilometri quadrati. A partire dal 1979, anno in cui sono stati intrapresi i primi monitoraggi satellitari, è solo la seconda volta in cui scende al di sotto dei 4 milioni di chilometri quadrati. È quanto emerge dalle rilevazioni preliminari del National snow & ice data center statunitense, che ai primi di ottobre pubblicherà la sua analisi complessiva sull’estate artica.
Sul declino verticale osservato tra il 31 agosto e il 5 settembre ha inciso soprattutto l’aria calda proveniente dalla Siberia, dove l’estate 2020 è stata caratterizzata da un caldo record. D’ora in poi è previsto che la banchisa torni a espandersi, perché con l’autunno diminuiranno le temperature e le ore di luce. Tuttavia, avvertono i ricercatori, non è da escludere che altri fenomeni atmosferici – come per esempio una variazione nello schema dei venti – portino nei prossimi giorni a un nuovo minimo stagionale.
Ghiaccio marino, tutti i record negativi risalgono agli ultimi 14 anni
In una sola occasione i satelliti avevano registrato un’estensione inferiore: era il 17 settembre 2012 e aveva toccato un minimo di 3,39 milioni di chilometri quadrati. Osservando i trend di lungo periodo appare evidente come questi dati non siano una casualità. Le rilevazioni satellitari infatti possono essere suddivise in tre distinti periodi pari a 14 anni ciascuno. Tutti e tre evidenziano una costante diminuzione della superficie della banchisa, con un ritmo medio del 6,4 per cento per decennio tra il 1979 e il 1992, che sale al 13,3 per cento tra il 1993 e il 2006 per poi tornare al 4 per cento tra il 2007 e il 2020. Il National snow & ice data center sottolinea come tutti i valori più bassi siano stati toccati negli ultimi 14 anni.
Nell’Artico il riscaldamento globale corre più veloce
Le temperature medie dell’Artico stanno aumentando un ritmo molto più rapido rispetto a quelle del resto del globo. Uno dei meccanismi locali che contribuiscono a tale fenomeno, che prende il nome di amplificazione polare, è proprio la fusione delle superfici ricoperte di ghiaccio o neve. Queste ultime infatti sono bianche e hanno un’elevata capacità di riflettere i raggi solari. Scomparendo lasciano esposte vaste aree di acque libere più scure, che viceversa assorbono i raggi, immagazzinano calore e contribuiscono all’aumento delle temperature.
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