
Con gli scarti di produzione del riso, l’azienda piemontese ha creato un aceto frutto della circolarità, mentre con la vendita di alcuni prodotti sostiene Banco Alimentare per donare pasti ai bisognosi.
Perché dovremmo accontentarci di sfilatini surgelati, indecorosi per un paese come il nostro, capitale mondiale dell’enogastronomia? La Csr di un’azienda non può che partire dai propri prodotti.
Autogrill SpA non conosce crisi: conta quasi 10mila dipendenti, e registra delle entrate pari a quasi 6 miliardi di euro l’anno di cui oltre 4 solo nella ristorazione, con un incremento annuale dell’utile netto spesso a due cifre. Azienda all’apparenza parecchio marketing-oriented, ha preso curiosamente posizione – già da alcuni anni – a favore di un impegno sul fronte della sostenibilità sociale: “Autogrill — dichiarava Silvio De Girolamo, Direttore dell’Internal auditing e a capo dell’area Responsabilità sociale d’impresa (Csr) di Autogrill — vuole far diventare le proprie attività sociali una leva di competizione rispetto alla concorrenza, e non solo una scelta filantropica di maquillage”. In quest’ottica, ci segnalava un articolo del Sole 24 Ore, Autogrill ha scelto di non creare una divisione autonoma per la responsabilità sociale, ma vuole che il bilancio sociale diventi uno dei processi di normale attenzione da parte di tutti i dirigenti e del personale. “L’intento – concludeva Silvio De Girolamo sul Sole 24 Ore – è quello di costruire nuovi autogrill, che probabilmente si chiameranno Eco-Autogrill, che siano ecologici da tutti i punti di vista, sia da quello della sostenibilità sia per quanto riguarda la compatibilità, e che siano autosufficienti anche dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico”.
Fantastico, nulla da eccepire: ma noi cittadini non eravamo uno tra gli stakeholder di maggiore prossimità? Così dovrebbe essere.
Spontanee, affiorano allora diverse domande: perché negli autogrill il pane è congelato, e di non eccelsa qualità? Perché non esiste alcuna tracciabilità in evidenza per il cliente sui prodotti utilizzati per farcirli? Perché si pranza circondati da orribile plastica, modello “mensa d’ospedale”? Perché se vuoi mangiare cibo di buona qualità devi andare ai ristoranti Ciao – self-service della catena Autogrill – e spendere per una piccola mozzarella il corrispettivo delle vecchie ottomila lire? Perché i caffè sanno sempre di “bruciato”, a causa probabilmente di una politica sulle miscele orientata al risparmio? Perché costringere gli utenti a un “dribbling” gioco-forza tra le corsie prima di uscire dal negozio, come fossimo capre da instradare verso il consumo a tutti i costi? E perché negli shop di Autogrill i prodotti confezionati da asporto costano il doppio della media del mercato? E perché – non ultimo – il gruppo è periodicamente coinvolto in polemiche sul trattamento riservato al personale, con licenziamenti “a comando” o trasferimento verso altri locali di ristorazione disposti ad accettare il personale in esubero, dirottato a destra e a manca, anche ad una distanza di 70 chilometri, per uno stipendio part time di 500 euro al mese?
Il prodotto e le relazioni con i dipendenti non fanno parte della Csr del gruppo? Suona tutto come un “prendere o lasciare”, della serie “se vuoi mangiare in autostrada o vieni da noi, e paghi un over price, oppure digiuni”… Ma soprattutto: può esistere un modello diverso?
C’è un punto di sosta, a Carcare, il primo Tamoil sull’autostrada da Savona venendo verso Torino, che pare un altro mondo: focacce fresche alle cipolle, panini bresaola e funghi, belle biove con dentro peperoni e filetti di acciuga, cassatine siciliane fatte in casa (deliziose). Un paradiso, non un semplice autogrill (e non ha marchio Autogrill, ovviamente). Per non parlare dei prodotti in vendita, primi tra tutti i porcini sott’olio, di prima qualità e neppure carissimi. Un miraggio? Eppure esiste, e guadagna. E – come questo articolo dimostra – si fa ricordare. Perché allora dovremmo accontentarci degli sfilatini surgelati di Autogrill, francamente indecorosi per un paese come il nostro, che è capitale mondiale dell’enogastronomia? Cosa ci vuole a dar da mangiare “bene” in un punto di sosta sull’autostrada, ad un prezzo adeguato, che garantisca profitto all’azienda ma non crei imbarazzo al cliente?
Il proprietario del punto di ristoro di Carcare non lavora certo per beneficenza, avrà il suo tornaconto. La cosa curiosa è che questo omino non sa neppure cosa significhi la parola “Csr”. Se lo interrogate, vi dirà semplicemente che lui “vuole guadagnare, ma ci tiene che gli automobilisti viaggino contenti”.
Altro che i complessi strumenti di “stakeholder satisfaction”: misuratela voi, la soddisfazione, dai sorrisi di chi si ferma li a mangiare. Ha anche creato un area gioco per i bambini, e sta esponendo nelle aiuole attorno alle pompe di benzina opere di arte contemporanea. Ma ci vuole tanto, invece di riempirsi la bocca di eco-banalità? Autogrill – come tanti altri – usa probabilmente la Csr per garantirsi buone uscite stampa, e poi si dimentica di noi, lo stakeholder più importante: gli italiani che viaggiano, e trascura l’ovvietà: sostanzialmente, la Csr di un’azienda non può che partire dai propri prodotti, che sono il “core”, il motivo stesso per cui l’azienda esiste. Un gruppo come Autogrill dovrebbe sentire come prioritaria l’importante missione di nutrire e soddisfare il popolo della gente al volante, con un’offerta genuina a un prezzo accettabile. Purtroppo la Csr – quella dettata dal buon senso – pare non abitare a casa Benetton: forse, in cima alla loro scala di valori c’è solo il profitto. Con buona pace dell’omino di Carcare, e del nostro stomaco.
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