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Le grandi società petrolifere investono miliardi in progetti che potrebbero rivelarsi inutili nell’arco di qualche anno. Lo dice un’analisi di Bloomberg.
Le dieci più grandi compagnie petrolifere al mondo, messe insieme, hanno in programma di investire circa mille miliardi di dollari da qui al 2030. Denaro che servirà per una lunga serie di progetti: scavare pozzi, mettere a punto nuovi impianti, acquisire tecnologie sempre più avanzate. Ma, secondo una lunga analisi pubblicata da Bloomberg, c’è un controsenso di fondo. Se il settore oil&gas continuerà a svilupparsi agli stessi ritmi che ha mantenuto per l’ultimo secolo, questi progetti garantiranno lauti introiti per le aziende e i loro azionisti. Peccato, però, che questo scenario sia ormai molto improbabile. E sono sempre di più gli analisti e gli investitori a lanciare l’allarme: tra una manciata di anni, affermano, tutte queste costosissime infrastrutture non varranno più nulla.
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Sulla scia dell’Accordo di Parigi, praticamente tutti i governi del mondo hanno promesso di ridurre le proprie emissioni di gas serra. Ci sono quelli più coraggiosi come Norvegia e Svezia, che vogliono arrivare alla “carbon neutrality” rispettivamente entro il 2030 e il 2045, e ci sono gli Usa di Donald Trump che invece sembrano arretrare.
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Resta il fatto che la strada ormai è segnata e porterà inevitabilmente a un calo dei consumi di combustibili fossili. Per una basilare legge economica, al calare della domanda scendono anche i prezzi. Che senso avrà, a quel punto, continuare a estrarre petrolio da giacimenti difficili e pericolosi da raggiungere, come quelli sottomarini, per poi venderlo a un prezzo al barile che non riesce nemmeno a coprire i costi? Gli economisti parlano di stranded assets, un’espressione che in italiano può essere tradotta come “beni incagliati”, per riferirsi a quest’insieme di beni e infrastrutture che un domani potrebbero essere buttati fuori mercato.
Natasha Landell-Mills, che lavora a Londra per la società finanziaria Sarasin & Partners, fa notare che le cosiddette “big oil” stimano il valore delle loro infrastrutture basandosi su un prezzo del petrolio pari a circa 75 dollari al barile. Negli ultimi cinque anni, però, la media è stata di 62 dollari al barile.
The @CarbonBubble continues to inflate. There’s an overhang in all #fossilfuels. But ~1/3 of the $5tn #fossilfuel planned investment for 2018-25 risks becoming #strandedassets under 2C-aligned #climate policies. https://t.co/ZMGNINJddk pic.twitter.com/MjWxeouHEU
— Margherita Gagliardi (@marghegagliardi) 29 maggio 2019
Con simili stravolgimenti all’orizzonte, non c’è da stupirsi se l’atmosfera è sempre più tesa. All’ultima assemblea degli azionisti di Exxon del 29 maggio, è stata sonoramente bocciata la risoluzione che chiedeva di istituire, all’interno del board, un comitato ad hoc sui cambiamenti climatici. Stesso destino per una mozione simile sottoposta a Chevron. Ma difficilmente gli azionisti molleranno la presa. Al di là delle considerazioni sul futuro del nostro Pianeta, sottolinea infatti Bloomberg, entra in gioco anche un tema puramente economico. Un vistoso calo dei consumi di carbone, petrolio e gas naturale avrebbe effetti a catena sull’intera economia globale, mandando in fumo una buona parte del valore di quelle imprese che si basano strutturalmente sugli stranded assets.
Come superare l’impasse, dunque? Secondo Sasja Beslik, responsabile per la sostenibilità di Nordea Asset Management, servono nuove norme che obblighino investitori e dirigenti a cambiare lo status quo: “Più parliamo del lungo periodo, più continuiamo a comportarci esattamente come abbiamo sempre fatto in passato”. Stando a una stima dell’Unep Fi (la partnership tra le istituzioni finanziarie e il programma per l’ambiente delle Nazioni Unite), avviare adesso le misure necessarie per salvare il nostro Pianeta comporterebbe, per le 30mila più grandi aziende al mondo, un costo di 4.300 miliardi di dollari nei prossimi quindici anni. Ma aspettare un altro decennio farebbe soltanto lievitare a 5.400 miliardi il conto finale.
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