
D’ora in poi l’università di Oxford non investirà più nei combustibili fossili, ma solo nelle società che si impegnano seriamente per la decarbonizzazione.
Continuare in modo miope a investire nei combustibili fossili significa gonfiare una bolla, che presto esploderà e ci farà perdere miliardi di dollari.
Quando Donald Trump ha decretato l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, poco più di un anno fa, ha giustificato la sua scelta con la volontà di “rendere gli Stati Uniti il più prospero e produttivo sistema del mondo”. In realtà, le cose stanno esattamente al contrario. Continuare a investire nei combustibili fossili significa non solo avvelenare il Pianeta, ma anche alimentare una bolla del carbonio destinata a scoppiare, trascinando con sé interi sistemi economici. Lo dimostra uno studio pubblicato nella rivista scientifica Nature Climate Change.
Il termine “bolla” è usato dagli economisti in diversi settori. La declinazione che probabilmente ci risulta più familiare è la bolla immobiliare, che si verifica quando i prezzi delle case salgono rapidamente, portandosi a valori incompatibili rispetto al reddito medio o ad altri parametri economici. Puntualmente, prima o poi la bolla scoppia: i prezzi delle case crollano all’improvviso e chi ha contratto un mutuo si trova con un debito superiore al valore reale della sua abitazione.
La bolla del carbonio segue lo stesso meccanismo. Continuare a investire in carbone e petrolio significa gonfiare artificialmente il valore dei titoli delle aziende che operano nel settore. Ma i governi di tutto il mondo sono ormai sulla strada della transizione energetica, le energie rinnovabili diventano sempre più efficienti e le tecnologie green si diffondono. Se i governi andranno avanti sulla strada della riduzione delle emissioni, una quota compresa fra i due terzi e i quattro quinti di queste riserve di fonti fossili non verrà utilizzata, diventando priva di valore. Gli investitori scapperanno dalle big delle fossili e le quotazioni dei loro titoli crolleranno, mandando in fumo miliardi e miliardi.
Secondo una ricerca pubblicata da poco su Iop Science, se verrà rispettato l’Accordo di Parigi il 20 per cento della capacità delle centrali verrà declassata al ruolo di “stranded asset”. Con questa espressione si qualificano quei beni che sono diventati poco remunerativi e troppo costosi da mantenere.
Ma la caratteristica ancora più particolare del nuovo studio di Nature Climate Change, fa notare Bbc News, sta nel fatto che non si dà per scontato che l’Accordo di Parigi riesca nel suo intento. Anche se i governi non faranno niente di più per limitare l’aumento delle temperature medie globali, affermano i ricercatori, la domanda di combustibili fossili scenderà comunque. Le perdite in termini economici, a livello globale, arriveranno a mille miliardi di dollari entro il 2035. Se invece entreranno in gioco ulteriori regolamentazioni sulle emissioni, toccheranno il tetto dei 4mila miliardi di dollari. Un impatto più pesante rispetto a quello della crisi finanziaria del 2008.
“Molti investitori non prendono sul serio la bolla del carbonio. Dicono che le politiche sul clima non saranno adottate; se lo saranno, non si riveleranno poi così severe; se anche saranno severe, non saranno adottate così presto. Quello che diciamo noi è che tutti questi ragionamenti non hanno alcuna importanza”, ha dichiarato a Bbc News il professor Jorge Viñuales della Cambridge University, coautore dello studio.
In questa gigantesca transizione ci saranno dei vincitori a livello economico, soprattutto Cina, Giappone e Unione europea, paesi importatori che verranno scendere i prezzi. Ma ci saranno anche degli sconfitti: Stati Uniti, Russia e Canada, che proprio sulle esportazioni fondano il loro potere economico. La via d’uscita? “Abbandonare gli investimenti nei combustibili fossili e cercare di sviluppare le energie rinnovabili”.
Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), nel 2016 sono stati investiti circa 700 miliardi di dollari in petrolio, gas e carbone, che rappresentano ancora il 6% del mercato azionario globale. Ma si fa sempre più forte e diffuso il movimento che invita a disinvestire i propri soldi dalle fonti fossili e convincere fondi pensione, banche, assicurazioni e università a fare altrettanto. Il che, come ribadisce per l’ennesima volta anche questo studio scientifico, non è un’opzione, ma l’unica strada che ha senso percorrere.
D’ora in poi l’università di Oxford non investirà più nei combustibili fossili, ma solo nelle società che si impegnano seriamente per la decarbonizzazione.
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