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Nel 2050, 200 milioni di persone avranno bisogno di aiuto umanitario a causa dei disastri legati al clima. Lo dice l’Ifrc, la più grande organizzazione umanitaria al mondo.
Sono passate poche settimane da quando l’uragano Dorian ha messo in ginocchio le isole Bahamas, distruggendo 13mila case e lasciando un bilancio di 54 morti e 1.500 dispersi. A fine agosto del 2017 era stato il turno del Texas, devastato dall’uragano Harvey. Nella primavera dello stesso anno, le alluvioni in Perù avevano colpito più di 1,2 milioni di persone, lasciando 107 morti. Queste catastrofi naturali hanno una cosa in comune: in tutti i casi, studi scientifici le hanno ricollegate direttamente ai cambiamenti climatici in corso. Il costo umanitario di episodi come questi è già altissimo, ma nei prossimi anni rischia di salire a dismisura. A lanciare l’allarme è la Federazione internazionale delle società della Croce rossa e della Mezzaluna rossa (Ifrc), la più grande organizzazione umanitaria al mondo, con un report dal titolo eloquente: The cost of doing nothing, Il costo del non fare.
Ogni anno, per tutto l’ultimo decennio, circa 206 milioni di individui hanno subito le conseguenze di alluvioni, tempeste, siccità e incendi. Tralasciando quelli che hanno un reddito superiore ai 10 dollari al giorno e quindi rientrano nel segmento più agiato dell’umanità, si può ritenere che circa 108 milioni abbiano avuto bisogno di assistenza da parte delle organizzazioni umanitarie internazionali. Le risorse a disposizione sono già largamente insufficienti, perché servirebbero tra i 3,5 e i 12 miliardi di dollari ogni anno.
Ma se le temperature globali continuano ad alzarsi, con tutto ciò che ne consegue, cosa dobbiamo aspettarci per il prossimo futuro? Il report dà una risposta ipotizzando diversi scenari. Secondo quello più pessimistico, già nel 2030 saranno 150 milioni le persone in stato di emergenza umanitaria, e per assisterle serviranno fino a 20 miliardi di dollari l’anno. Entro il 2050 si arriverà a 200 milioni di persone ogni anno.
Numeri giganteschi, che però potrebbero risultare inevitabilmente parziali, perché prendono in considerazione unicamente gli eventi meteorologici estremi (e non, per esempio, epidemie e conflitti) e gli interventi di assistenza immediata da parte delle organizzazioni umanitarie internazionali, tralasciando il percorso di recupero nel lungo periodo. Restano fuori anche i costi sostenuti da governi, sistemi sanitari, compagnie di assicurazione e così via.
Non possiamo impedire che si verifichino cicloni, tempeste e ondate di calore, mette in chiaro lo studio dell’Ifrc, ma non per questo dobbiamo ritenerci impotenti. “La fame, gli edifici collassati, i decessi non sono ‘disastri naturali’. Al contrario, rappresentano il nostro fallimento, come comunità globale, a prepararci agli eventi climatici estremi e ad adattarci al clima che cambia. Le società resilienti e ben attrezzate affrontano regolarmente gli eventi meteorologici estremi con il minor numero possibile di morti e di danni alle cose. Per esempio, se è vero che una siccità seria è sempre una sfida, in una società resiliente anche la più estrema siccità non porta alla fame, tanto meno alla carestia. Nella maggior parte dei casi, le persone che hanno accesso a un supporto adeguato – che venga dalla famiglia e dagli amici, da strumenti finanziari o da sistemi di protezione sociale – riescono a riprendersi in fretta dai disastri”, si legge nel report.
Insomma, siamo ancora in tempo per agire, su tre fronti diversi. Il primo è quello della resilienza: bisogna progettare gli edifici e infrastrutture già tenendo conto dei futuri sconvolgimenti del clima e, nel frattempo, tutelare e ripristinare gli ecosistemi naturali, che si sono dimostrati capaci di arginare questi rischi.
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Nonostante tutti gli sforzi da parte dell’uomo, gli eventi meteorologici estremi si verificheranno comunque. È per questo che bisogna investire nella sensibilizzazione della popolazione, nei sistemi di allerta immediata e nelle politiche di intervento. Terza priorità, la ricostruzione, che non va intesa soltanto in senso emergenziale. Serve un sistema socio-economico più inclusivo, che permetta anche alle fasce più vulnerabili della popolazione di riconquistare un tenore di vita dignitoso nel lungo periodo.
Gli esperti interpellati dall’Irfc sostengono che, mettendo subito in campo un mix di misure di adattamento e resilienza, il numero di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria internazionale possa ridursi a 68 milioni entro il 2030 e addirittura a 10 milioni entro il 2050, il 90 per cento in meno rispetto a oggi, evitando un enorme carico di sofferenze umane.
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