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Si è ormai conclusa la Cop 13, la conferenza internazionale sulla biodiversità. Oltre 10mila persone, tra cui duecento ministri per l’ambiente e i rappresentanti di 196 paesi e organizzazioni internazionali, si sono incontrati a Cancún, in Messico, per trovare insieme un modo per arginare la tragica e costante scomparsa di specie animali e vegetali. Insomma, bisogna
Si è ormai conclusa la Cop 13, la conferenza internazionale sulla biodiversità. Oltre 10mila persone, tra cui duecento ministri per l’ambiente e i rappresentanti di 196 paesi e organizzazioni internazionali, si sono incontrati a Cancún, in Messico, per trovare insieme un modo per arginare la tragica e costante scomparsa di specie animali e vegetali. Insomma, bisogna capire (e preservare) il reale valore del capitale naturale. Un valore che è fondamentale per le nostre economie. Senza eccezioni.
Quello di capitale naturale è un concetto tutt’altro che astratto. Il Wwf, con la sua pubblicazione Living planet report 2016, ci tiene a sottolinearlo.
“Il declino registrato nelle popolazioni delle specie è inestricabilmente legato allo stato degli ecosistemi che le sostengono. La distruzione di questi ecosistemi rappresenta un rischio non solo per le piante e la fauna selvatica residenti, ma anche per gli esseri umani. Questo in quanto gli ecosistemi ci forniscono cibo, acqua dolce, aria pulita, energia, rimedi medicinali, e svago. Inoltre, dipendiamo da sistemi naturali sani e diversificati per la regolazione e la depurazione delle acque e dell’aria, per le condizioni climatiche, per l’impollinazione e la dispersione dei semi, e per il controllo di parassiti e malattie”.
Il capitale naturale è costituito proprio da tutte le risorse, rinnovabili e non, che la natura ci fornisce gratuitamente: piante, animali, aria, acqua, suolo, minerali. Risorse che ci forniscono dei benefici, definiti come servizi ecosistemici. Di per sé il patrimonio del capitale naturale si è evoluto fino a essere autosufficiente. Negli ultimi secoli, però, la pressione umana è aumentata senza sosta (urbanizzazione, agricoltura e pesca intensiva, inquinamento delle acque ecc.), consumandolo a un ritmo che i cicli della natura ormai non riescono più a sostenere. Chi ci perde siamo noi: perché non troveremo mai qualcuno che ci fornisca, gratuitamente, servizi anche solo lontanamente comparabili a quelli degli ecosistemi.
Se n’è accorto anche chi i numeri e i dati economici li maneggia giorno dopo giorno, vale a dire il dipartimento per il Commercio degli Stati Uniti, che si è assunto il compito – non facile – di tradurre in cifre il valore della biodiversità.
Di norma, spiega il dipartimento, un’azienda fa un conteggio del costo del lavoro e delle materie prime che gli servono per produrre un certo bene o servizio. In passato, ai beni forniti dalla natura si dava un costo di zero, perché – essendo gratuiti – li si dava per scontati. Ma è evidente che questo sistema non sta più in piedi. I servizi della natura hanno un valore, reale e tangibile. Per giunta, entra in gioco il tema delle esternalità: chiunque adoperi le risorse della natura inciderà in qualche modo sugli altri. E capita che queste ripercussioni abbiano un peso addirittura maggiore rispetto al beneficio che si trae dalla risorsa stessa.
Insomma, “dare i numeri” della biodiversità è tutt’altro che semplice. Ci stanno provando in tanti, dal governo statunitense alle agenzie delle Nazioni Unite, con risultati altalenanti. Una delle risposte considerate più attendibili è quella che ha dato l’Unep (il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) nel suo rapporto Dead planet, living planet, pubblicato nel 2010. La biodiversità e gli ecosistemi forniscono agli esseri umani servizi per un valore che si può stimare in 72 mila miliardi di dollari ogni anno. Secondo la Banca mondiale, nello stesso anno il pil globale non andava oltre i 64,7 mila miliardi. Insomma, la natura batte l’uomo. Forse basterebbe questo per capire che lavorare con, e per, gli ecosistemi è l’unico approccio che ha senso. Ed è arrivato il momento di mandare definitivamente in pensione l’idea, sconsiderata, di poterne sfruttare a man bassa le risorse pensando che saranno a nostra disposizione per sempre.
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