Carbon tax, il G20 per la prima volta si è detto d’accordo

Per la prima volta un G20 è terminato con un consenso attorno all’idea di introdurre una carbon tax, un prelievo sulle emissioni di CO2.

Il G20 che si è tenuto dal 7 all’11 luglio a Venezia ha portato con sé la conferma, da parte dei governi delle più importanti potenze economiche mondiali, della volontà di imporre una tassazione minima sui profitti delle multinazionali. Ciò al fine di lottare contro l’evasione e l’elusione fiscale. Un cambiamento di paradigma rispetto ai decenni passati, benché prudente e perfettibile, che ha riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Anche per questo è passata più in sordina un’altra decisione particolarmente importante: i ministri delle Finanze hanno infatti approvato, per la prima volta, il principio di tassazione delle emissioni di CO2.

Gli Stati Uniti, a lungo contrari, appoggiano la carbon tax

La cosiddetta carbon tax, concepita con l’obiettivo di fungere da deterrente e convincere le imprese a non inquinare, da sempre aveva diviso i paesi membri del G20. Gli Stati Uniti, in particolare, si sono a lungo opposti. Stavolta, però, i ministri hanno dichiarato che “la lotta contro i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità, nonché la promozione della protezione ambientale” rappresentano “priorità urgenti”.

Colossi petroliferi americani, carbon tax
Anche i colossi petroliferi americani hanno mostrato apertura all’ipotesi di una carbon tax © Drew Angerer/Getty Images

Di qui la decisione di sostenere la carbon tax. La stessa presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha sottolineato la necessità di un prelievo del genere. Così come quella di imporre un valore che rifletta il vero costo delle emissioni di CO2.

La prospettiva di un meccanismo di adeguamento della CO2 alle frontiere

La scelta di una “tariffa comune” è alla base anche della possibile introduzione di un meccanismo di adeguamento della CO2 alle frontiere. L’Unione europea lo sta studiando ormai da tempo: il Carbon border adjustment mechanism dovrebbe consentire di incidere sui prezzi dei prodotti importati, facendo sì che esso “integri” anche il costo delle emissioni di gas ad effetto serra legate alla fabbricazione.

meccanismo europeo co2 acciaio
Il settore dell’acciaio e quello del cemento sono quelli che maggiormente rischiano di delocalizzare per sfuggire alle norme europee sul contenimento della CO2 © Courtesy ThyssenKrupp/Getty Images)

In tal modo, da un lato si potrebbe evitare una concorrenza sleale da parte di paesi che non si stanno impegnando a sufficienza sul clima. Dall’altro, che alcune aziende europee possano delocalizzare la produzione, sfruttando proprio le regole più permissive adottate al di fuori dei confini comunitari.

Il Fondo monetario internazionale spinge per evitare i costi dell’inazione

Secondo quanto riportato dal Financial Times, l’economista premio Nobel americano William Nordhaus, in un discorso tenuto al G20 ha spiegato che un prezzo elevato delle emissioni di CO2 è cruciale nella lotta ai cambiamenti climatici. A chi eccepisce ancora che esso rischia di essere troppo oneroso per le aziende, ha infine risposto la direttrice generale del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, secondo la quale tale costo “è irrisorio” se paragonato a quello che si dovrebbe pagare, sul lungo termine, senza un’azione tempestiva sulla crisi climatica.

La proposta europea, tuttavia, per ora coinvolge soltanto cinque settori: acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio e produzione di energia elettrica. Si prevede una revisione del meccanismo a partire dal 2026, per verificare se includere o meno altri comparti.

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