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Come suo padre, da poco assassinato, Diana è una guardiana della foresta. Oggi anche lei rischia la vita, ma non ha rinunciato a partecipare alla Cop 21.
Diana Rios ha 22 anni. Tre figli. I lunghi capelli neri incorniciano un viso segnato dalla sofferenza. Qualche lacrima, ogni tanto, le attraversa il volto. Vive in un villaggio sperduto al confine tra il Perù e il Brasile. Suo padre, Jorge, è stato ucciso poco più di un anno fa a causa del suo impegno per la salvaguardia della foresta nelle zone abitate dalla Comunità Ashéninka di Alto Tamaya – Saweto.
Anche lei è stata minacciata di morte. Le è stato riferito che non supererà i cinque giorni di viaggio in canoa necessari per tornare a casa, dopo la Cop 21. “Ho paura, ma sono a Parigi per onorare la memoria di mio padre. Per far sì che il suo sacrificio non sia stato vano. E per il futuro dei miei bambini”. In questa intervista ci racconta la sua storia.
Diana, chi era suo padre?
Per raccontarle tutto ci vorrebbero dei mesi. Le dirò che dal 2003 abbiamo cominciato a denunciare la deforestazione delle nostre terre, perpetrata da singoli così come da grandi aziende. Il fenomeno è immenso, perché lo sfruttamento del legno, così come quello minerario, è fortemente incentivato. Le imprese ricevono delle concessioni su alcuni appezzamenti di terreno, ma mio padre scoprì che alcune persone avevano cominciato a tagliare alberi anche nelle terre che sono riservate a noi. Ha denunciato il fatto. Poi è stato ucciso.
Quando è accaduto?
Il primo settembre del 2014. Poco più di un anno fa. È ancora molto difficile per me parlarne. Il suo corpo è stato fatto a pezzi. Io non ho avuto la forza di andarlo a guardare. È stata mia madre a raccontarmelo.
Avete pensato di scappare?
Mai. Al contrario. La paura non ci fermerà. Mia madre stessa, tornando a casa dopo aver visto il cadavere di papà, ci ha chiesto di continuare la sua battaglia. “Perché noi siamo i guardiani della foresta”, ci ha detto.
Non vi siete rivolti alla giustizia?
Il nostro popolo non è ascoltato da nessuno. Abbiamo parlato, spiegato, implorato. Ma l’unica cosa che abbiamo ottenuto è la presenza di un poliziotto nel nostro villaggio. Uno solo. Il che non risolve nulla.
E il vostro governo?
Poco fa ho sentito parlare il ministro dell’Ambiente del Perù, Manuel Pulgar-Vidal. Raccontava del suo impegno in difesa del popolo indigeno. Mi domando come possa dire una cosa simile, mentre nei nostri villaggi dobbiamo morire per difendere la nostra terra.
Cosa si aspetta dalla Cop 21?
Che sia il luogo adatto per far ascoltare la nostra voce. Per ricordare al mondo il nostro sforzo per lottare contro i cambiamenti climatici. Siamo spaventati, abbiamo paura di tornare a casa, ma vogliamo che tutti sappiano che le nostre terre potrebbero darci ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, contribuendo al contempo a salvaguardare l’ambiente. A condizione però che venga garantita la nostra sicurezza. E che anche per noi esista la parola giustizia.
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