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Stipendi più bassi, ostacoli alla carriera, ma anche voglia di riscattarsi e fare impresa. L’economia al femminile, in Italia, può ancora crescere molto.
A una società giusta, equa, capace di crescere, si arriva in tanti modi. Uno di questi è garantire che l’economia – intesa come possibilità di carriera, iniziativa imprenditoriale, distribuzione della ricchezza e così via – non sia più solo “una cosa da uomini”. Eppure, ancora nel 2017, se si parla di economia al femminile in Italia si finisce per dipingere un quadro in chiaroscuro. Ecco alcuni dati su cui riflettere e (soprattutto) lavorare.
Nell’edizione 2016 del Global Gender Gap Report, la classifica sulla parità di genere redatta annualmente dal World Economic Forum (Wef), l’Italia è cinquantesima su 140 paesi analizzati. Se però il nostro Paese si colloca abbastanza bene negli indicatori legati alla salute e all’istruzione, e anche nella partecipazione alla vita politica segna importanti passi avanti, il tasto dolente è proprio quello dell’economia al femminile: limitandoci a quest’area scivoliamo al 117mo posto su 140, alle spalle di Bosnia ed Erzegovina, Cuba, Nepal e Costa d’Avorio. La situazione è addirittura peggiorata rispetto a dieci anni fa, quando ci collocavamo all’87mo posto.
Secondo il World Economic Forum, sono gli stipendi il punto davvero critico nel nostro cammino per la parità tra uomo e donna. I dati raccolti dall’Istat lo confermano. In Italia la retribuzione media delle donne è di 13 euro all’ora, mentre quella degli uomini è di 14,8 euro, con un differenziale del -12,2 per cento. Lo si legge nella prima analisi sulla variabilità delle retribuzioni nel settore privato (pubblicata a dicembre 2016 sulla base dei dati del 2014). Paradossalmente, ne emerge anche che, allo stato attuale delle cose, chi studia non è avvantaggiato. Anzi: una donna laureata in media percepisce 16,1 euro l’ora, contro i 23,2 di un uomo laureato. C’è da dire che la disparità degli stipendi in Europa è la norma; anzi, in molti casi è più marcata, visto che in Italia ci pensa il settore pubblico ad appianare gli squilibri.
Le donne del Belpaese, però, reagiscono e sono pronte a mettersi in proprio. In Italia, nel 2014, un’impresa su 5 è al femminile: stiamo parlando di 1,3 milioni di aziende, il 12,6 per cento del totale. Lo dimostra la terza edizione di “Impresa in genere”, il rapporto nazionale redatto da Unioncamere. Le donne sono particolarmente attive nel settore dei servizi, con oltre 850.000 imprese, concentrate soprattutto nel ramo di servizi alla persona, salute, assistenza sociale, tessile, abbigliamento e calzature, istruzione. Si fanno valere anche nell’agricoltura (circa 220.000 imprese), mentre latitano nell’industria e nell’artigianato.
Le imprese al femminile sono soprattutto di piccole o piccolissime dimensioni (97 su 100 non superano i 9 addetti); un po’ perché rispecchiano la natura del tessuto imprenditoriale italiano, un po’ perché spesso mettersi in proprio significa garantirsi uno sbocco professionale (magari con una certa flessibilità), anche in contesti come il Mezzogiorno in cui è più difficile trovare un lavoro dipendente. Le imprese al femminile sono anche mediamente più giovani di quelle maschili: 14 su 100 sono guidate da under 35 e oltre il 30 per cento non ha più di quattro anni.
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