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Come si racconta il mondo attraverso la fotografia? Lo abbiamo chiesto a Francesco Pistilli, noto fotoreporter italiano che lavora anche con ong come AVSI.
Ci sono fotografie che hanno fatto la storia. Come quella che ritrae una bambina fuggire nuda dal suo villaggio durante la guerra in Vietnam. O come quella che mostra un bimbo denutrito in Sudan, in compagnia di un avvoltoio che ne attende la morte. Scatto criticato al punto da spingere l’autore al suicidio, anche a causa della atrocità che aveva documentato e non sapeva spiegarsi, né tantomeno accettare.
Ci sono fotografie che fanno parte della nostra, di storia. Un tempo c’erano gli album da sfogliare, che le nonne sono ancora solite sfoggiare nelle occasioni meno opportune. Adesso ci sono i social network, o semplicemente i nostri smartphone, che fungono spesso da cassetti dove accantonare migliaia di momenti della nostra vita. Un cassetto che riapriamo di rado ma che, quando lo facciamo, è capace di trasportarci dentro un viaggio che quasi nemmeno ricordavamo d’aver compiuto.
Del ruolo della fotografia nella società odierna abbiamo parlato con Francesco Pistilli, fotoreporter abruzzese, vincitore nel 2018 di uno dei più prestigiosi concorsi di fotogiornalismo: il World press photo.
Potrebbe esistere il giornalismo senza fotografia?
Penso di no. Esistono forme di giornalismo che non prevedono immagini, come alcune tipologie di approfondimenti o inchieste, però il giornalismo classico, che si avvicina ad un maggior numero di persone, prevede la fotografia o il video. L’immagine resta centrale nel racconto della realtà e con i social media sta assumendo un ruolo sempre maggiore.
Nel 2018 ha vinto il World press photo con il progetto Lives in limbo. Com’è nato?
Lives in limbo è nato nel 2015, quando ho iniziato a raccontare le disavventure dei migranti che arrivavano dall’Africa o dalla rotta balcanica. L’ho fatto sia a Roma sia in Grecia, ho documentato l’esodo di migliaia di persone che hanno attraversato il Mediterraneo o percorso la rotta balcanica. L’ultimo capitolo di Lives in limbo è stato quello in Serbia, con cui ho vinto il World press photo. È stata un’esperienza umana importante, ho raccontato un pezzo di storia, cosa che per uno che fa il mio lavoro significa molto a livello personale e professionale. Ho messo in risalto le varie sfaccettature di questo grande movimento di esseri umani, ed è stato profondamente toccante.
Nel 2013 lei è stato nella foresta amazzonica per documentare il progetto di LifeGate Foreste in piedi, che tutela aree verdi affidate direttamente alle comunità locali. Com’è stato questo viaggio?
È stato intenso. Era la prima volta che andavo in Amazzonia. Ho avuto la possibilità di avvicinarmi all’idea della protezione del verde; di conoscere chi, con progetti di cooperazione, cerca di limitare i danni dei continui attacchi che la foresta subisce. È anche stata la prima volta che ho comunicato giorno per giorno ciò che vedevo, un racconto live in continuo divenire. È stata un’esperienza formativa.
Lei collabora con AVSI, una ong che si occupa di progetti di cooperazione allo sviluppo. In che cosa consiste questa collaborazione?
Ho seguito vari progetti. Il primo in Brasile, precisamente al confine col Venezuela, insieme ad un collega videomaker. Abbiamo documentato la migrazione dei venezuelani verso il Brasile, la fuga di migliaia di persone che ogni giorno superano il confine, a volte semplicemente per fare la spesa, comprare il cibo, le medicine e poi tornare indietro; altre per rimanere nei campi profughi che in parte sono gestiti da AVSI. Io ho seguito il lavoro dell’associazione, ho documentato il modo in cui assiste queste persone, dando loro un’accoglienza dignitosa in un momento difficile, considerando che per molti la fuga è disperata, con pochissimi mezzi.
Ho avuto altre due belle esperienze con AVSI, l’ultima in Costa d’Avorio, la penultima in Mozambico per realizzare dei documentari video. Ho potuto vedere come i volontari si approcciano alle comunità locali, come riescono ad assisterle, a portare avanti progetti vitali per lo sviluppo e l’educazione.
Il viaggio in Costa d’Avorio è stato importante perché connetteva una parte della mia vita professionale – quella al fianco delle ong – con un’altra, cioè il mio interesse per le migrazioni. AVSI cerca di dare speranze al popolo locale per evitare che affronti un lungo viaggio molto pericoloso. Ho parlato con gente che è tornata indietro perché ha avuto difficoltà lungo la strada, con donne che hanno subìto violenze o sono state ridotte in schiavitù; i volontari le hanno aiutate a tornare a casa e avere una seconda opportunità.
In Mozambico abbiamo documentato la collaborazione di AVSI con altre ong per lo sviluppo nelle comunità locali di nuovi linguaggi artistici e per la creazione di percorsi turistici in aree altrimenti abbandonate, anche per cercare di impedire ai giovani di intraprendere strade sbagliate.
È riuscito a entrare in contatto a livello umano con le popolazioni locali? C’è una storia in particolare che le è rimasta impressa?
In Mozambico, gli street artist che si sono occupati della riqualificazione urbana delle periferie di Maputo erano ragazzi della mia età o poco più giovani, condividevamo pure gli stessi gusti musicali. In Costa d’Avorio è stato diverso perché ho conosciuto persone dal passato complicato, però con qualcuna ho stretto amicizia tant’è che ancora ci sentiamo.
In che modo si raccontano storie come queste attraverso le immagini?
Io penso che con le immagini si riesca a rompere il muro fra chi sente parlare di cooperazione e chi la cooperazione la fa. Cerchiamo di avvicinare le persone a queste storie che, a volte, vengono raccontate in modo distorto. Il lavoro delle ong è stato screditato in molte occasioni negli ultimi anni; noi abbiamo cercato di combattere questo tipo di approccio mostrando la realtà attraverso la fotografia, mettendo davanti agli occhi di tutti quello che le ong fanno a migliaia di chilometri da qui.
Chi parte, sta via da casa sei mesi, un anno per lavorare con una ong e fa un’esperienza molto intensa, spesso non riesce a raccontarla, magari la condivide solo con amici e familiari. Noi, tramite il linguaggio fotografico, cerchiamo di riportare questo tipo di esperienze ad un pubblico più ampio, anche grazie all’empatia che le immagini sono in grado di suscitare.
Resilienza e resistenza sono parole chiave che forse solo le immagini riescono a trasmettere ad un pubblico che, probabilmente, realtà di quel tipo non le ha mai viste. Esistono conflitti che noi non conosciamo, che i media non ci raccontano, magari legati all’ambiente, che attraverso foto e video si riescono a mostrare al resto del mondo, alle persone comuni.
Nei paesi dove ha lavorato, ha notato gli effetti dei cambiamenti climatici? Sempre più persone migreranno per colpa delle difficili condizioni ambientali?
Assolutamente sì, penso che farebbe lo stesso chiunque, anche qui. Io vengo dall’Abruzzo, noi non siamo vittime di cambiamenti climatici, ma i terremoti degli ultimi anni hanno portato molte persone a lasciare il proprio territorio perché impaurite, perché hanno perso la casa, perché si sono trovate in situazioni molto difficili. Il riscaldamento globale rappresenta senza dubbio un tema centrale in questo momento, sia per le ong che per il pubblico stesso: dobbiamo diventare più sensibili all’argomento perché ci sono tantissime comunità sotto pressione, che tutti i giorni cercano di vincere un nemico che ha molti più strumenti, più finanziamenti ed è molto più potente di loro.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Proprio i cambiamenti climatici sono fra le questioni su cui vorrei concentrarmi in questi anni a venire, poi vorrei continuare a raccontare il fenomeno migratorio. Nel frattempo, sto portando avanti il mio progetto sul made in Italy, sull’eccellenza della ricerca, tutta italiana, di vaccini per il coronavirus (ma non solo). Perché esistono delle realtà scientifiche italiane rinomate in tutto il mondo che stanno effettuando studi e test per combattere questo nemico invisibile; quasi tutte sono molto giovani, con tante donne.
Si tratta di un tema che riguarda anche l’ambiente perché, anche se ancora non sappiamo con certezza da dove venga il coronavirus, possiamo dire senza esitazione che i cambiamenti climatici e la distruzione degli ecosistemi siano coinvolti. Un articolo che ho pubblicato insieme a una mia collega giornalista settimane fa parlava proprio della correlazione fra allevamenti intensivi e virus. Perché molti arrivano dagli animali, ma non è detto che siano animali selvatici dei mercati cinesi: l’aviaria e la mucca pazza si sono sviluppati per colpa di un sistema di allevamento che è tutto tranne che genuino e salutare, ma soltanto pieno di abusi sugli animali. Penso che in questo momento di pandemia dovremmo pensare anche a questo, al consumo di carne, al tipo di alimentazione che desideriamo, al tipo di agricoltura che vogliamo. Io non sono uno scienziato, però è abbastanza evidente che, distruggendo gli habitat, i virus possano fare un salto di specie.
Cosa scriverebbe su una cartolina dal futuro? Qual è il futuro che si immagina dopo questa pandemia?
Tutelate l’ambiente, fatelo a partire dalle piccole cose. La mia cartolina dal futuro è un messaggio di speranza ed è un invito all’empatia non soltanto fra noi esseri umani, ma anche nei confronti degli animali o della natura che ci circonda.
Una primavera come quella di quest’anno io non l’avevo mai vista. Il mio giardino è stato più vivo che mai, a svegliarmi era il canto degli uccelli. Non penso certo che dobbiamo tornare a fermarci completamente come nei mesi del lockdown: dovremmo semplicemente trovare dei sistemi più tollerabili per poter vivere in questo mondo senza sciuparlo.
Ha parlato del canto degli uccellini: spesso la bellezza sta proprio nella semplicità. Vale anche per la fotografia? Da cos’è dato lo scatto perfetto?
Non userei la parola “perfetto”. Uno scatto importante, che resta nella memoria, è uno scatto che in un solo frame riesce a racchiudere tanto della nostra storia, e nel frattempo è un insieme tra emozione e racconto, racconto della storia di qualcuno, capace di creare empatia. Penso che l’empatia tra il soggetto all’interno della foto e chi guarda la foto sia imprescindibile. Quando riesci a trascinare chiunque dentro quel frame e farlo sentire parte integrante dell’immagine anche se ritrae una realtà lontanissima, anche se parla di culture lontanissime… hai raggiunto l’obiettivo.
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