Cooperazione internazionale

Più giornalisti uccisi a casa che in guerra, nel 2015

Nel 2015 solo un giornalista su tre è morto perché si trovava in un teatro di guerra, in una zona ad alto rischio. Gli altri sono morti in circostanze non identificate o, addirittura, sul posto di lavoro: in redazione.

“I giornalisti vengono uccisi perché li si vuole ridurre al silenzio, intimidire. Segno che danno fastidio, dunque che svolgono ancora un ruolo fondamentale”, è il commento del direttore del settimanale Internazionale Giovanni De Mauro alla notizia che nel 2015 sono stati uccisi 110 giornalisti in tutto il mondo. I dati sono della ong Reporter senza frontiere (Rsf) e mostrano una crescita considerevole visto che si tratta del numero più alto degli ultimi dieci anni.

 

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La lapide che ricorda i giornalisti di Charlie Hebdo uccisi il 7 gennaio 2015 © Michaud Gael/NurPhoto/Corbis

La guerra nelle redazioni

I paesi più pericolosi per chi cerca di raccontare la verità rimangono quelli in guerra, in particolare Iraq e Siria. Una constatazione banale solo in apparenza. Nel 2015, solo un giornalista su tre è stato ucciso mentre era testimone di un conflitto armato, l’anno precedente erano due su tre. A conferma di questo, va segnalato che il terzo paese per numero di giornalisti uccisi è la Francia, uno stato europeo traumatizzato dal terrorismo e che il 7 gennaio 2015 ha subìto un attentato che ha sconvolto l’Occidente. Otto giornalisti del mensile satirico Charlie Hebdo sono stati uccisi sul posto di lavoro, in redazione. Un atto terribile che ha portato la guerra, in questo caso alla libertà di stampa, lì dove non si pensava potesse arrivare. A testimoniarlo sono state le parole dell’attuale direttore del giornale francese, il fumettista Riss: “Non abbiamo mai mandato dei giornalisti in zone di guerra, ma il 7 gennaio è stata la guerra a venire da noi”.

 

 

La morte di Ruqia Hassan

Tra le 110 vittime c’è anche la giornalista Ruqia Hassan, una donna di 30 anni che, con lo pseudonimo di Nissan Ibrahim, raccontava quotidianamente sui social network la vita nella città di Raqqa, in Siria, occupata dai miliziani dello Stato Islamico. Hassan per i suoi assassini era colpevole di spionaggio, secondo quanto riportato da alcuni attivisti. L’episodio è avvenuto a settembre, ma la notizia della sua morte è circolata solo all’inizio del 2016. La giornalista siriana, che ha studiato filosofia presso l’università di Aleppo, si era rifiutata di abbandonare Raqqa dopo la conquista da parte dei terroristi e aveva deciso di continuare a scrivere ciò che accadeva e cadeva dal cielo, come le bombe sganciate dagli occidentali e dai russi per fermare l’avanzata del gruppo estremista islamico.

 

Seymour Hersh, new york times
Il giornalista Seymour Hersh del New York Times © Wally McNamee/CORBIS

 

In un mondo in cui l’editoria e il giornalismo sembrano in ginocchio per la mancanza di soldi e di fondi indispensabili per raccontare ciò che succede negli angoli più remoti e dimenticati del mondo, la costanza con cui si prendono di mira queste persone e ciò che rappresentano, è una conferma che il giornalismo è vivo e fa paura. Più paura di tutte le minacce, i crimini, le bombe. Una penna o una tastiera rimangono le armi più efficaci per mettere fine a chi le usa per uccidere o mettere a tacere. Il coraggio non si compra e anche se chi lavora nel settore non è ancora riuscito a capire come tornare a far quadrare i conti, le persone che decidono di arruolarsi per difendere e accrescere la libertà di stampa, per denunciare i soprusi e le ingiustizie continua ad aumentare.

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