
Un’azienda italiana si è trasformata in un’eccellenza nell’innovazione sostenibile, basata sui principi dell’economia circolare.
Dopo la prima ordinanza sul greenwashing di un tribunale italiano, abbiamo chiesto all’Istituto di autodisciplina pubblicitaria quali sono i criteri per distinguere una comunicazione ambientale corretta.
“La sensibilità verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da un’impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto”. In considerazione di ciò, le “dichiarazioni ambientali verdi devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici presentati in modo comprensibile”. A metterlo nero su bianco è il tribunale di Gorizia, il primo in Italia – e uno dei primi in Europa – a emettere un’ordinanza cautelare in materia di greenwashing. Cioè il tentativo di vantare attributi ambientali che però sono solo di facciata.
Tutto nasce da un ricorso d’urgenza presentato da Alcantara, azienda che commercializza l’omonimo materiale di rivestimento per la nautica, l’arredamento e le auto, nei confronti di una concorrente, la friulana Miko. Quest’ultima aveva pubblicizzato la propria microfibra come “ecologica”, “amica dell’ambiente” e “scelta naturale”. Claim che, a detta del tribunale, sono “sicuramente molto generici e sicuramente creano nel consumatore un’immagine green dell’azienda senza peraltro dar conto effettivamente di quali siano le politiche aziendali che consentono un maggior rispetto dell’ambiente”. Anzi, “alcuni concetti riportati trovano smentita nella stessa composizione e derivazione del materiale”, elaborato a partire da materie prime fossili, a tal punto che “risulta difficile supporre che possa essere considerata una fibra naturale”. Da qui l’ordine di sospendere la diffusione di questi e altri claim, pubblicare la decisione nel sito dell’azienda e inviare il testo dell’ordinanza ad alcuni clienti.
“La decisione di Gorizia per noi non è una sorpresa perché cita ampiamente il lavoro dell’autodisciplina”, commenta a LifeGate Vincenzo Guggino, segretario generale dell’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, un’associazione di cui fanno parte gli operatori del settore: associazioni di categoria dei vari comparti merceologici, concessionarie, mezzi di comunicazione, agenzie e aziende di comunicazione. Si tratta di un sistema di auto-regolamentazione che, attraverso un codice a cui si aderisce su base volontaria, dagli anni Sessanta fissa i parametri per una comunicazione commerciale “onesta, veritiera e corretta”. “Il nostro sistema è espressione di chi lavora sul campo, ma il controllo viene affidato a soggetti indipendenti, cioè il Giurì e il Comitato di controllo”, precisa.
“La nostra prima decisione sul greenwashing risale al 1991 ed è relativa a uno slogan che diceva che un’auto ‘difende l’ambiente’, perché il suo impianto produttivo era all’avanguardia per gli standard dell’epoca”, racconta Guggino. “La svolta è arrivata nel 2014 quando ci siamo dotati di una norma specifica sulla tutela dell’ambiente naturale, l’articolo 12, che traduce più decisioni”.
Art. 12 – Tutela dell’ambiente naturale
La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili.
Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono.
Agli occhi di un consumatore, però, può essere difficile scorgere il confine tra la comunicazione lecita e il greenwashing. Vincenzo Guggino ci ricorda che gli slogan ambientali devono rispondere a due requisiti: chiarezza e accuratezza. Ciò significa che chiunque dev’essere in grado di capire, senza margine di incertezza, in cosa consiste di preciso il vantaggio ambientale dichiarato: espressioni come “ecologico” o “amico della natura” in questo senso, sono evocative ma vanno sempre accompagnate da qualche dettaglio in più. Oltretutto, bisogna capire chiaramente a cosa è riferito il claim: all’azienda o al singolo prodotto? E ancora, al prodotto nel suo insieme oppure a una materia prima, al packaging o uno specifico componente? Ogni affermazione sull’impatto ambientale va poi suffragata con prove scientifiche, né più né meno di quanto è richiesto per pubblicizzare un farmaco o un integratore alimentare.
“Il più delle volte le aziende hanno delle motivazioni che le autorizzerebbero a definirsi ‘ecologiche’, ma non hanno ancora imparato a rendere edotto il consumatore già nella fase di comunicazione pubblicitaria”, conclude Guggino. “La trasparenza è necessaria proprio per valorizzare chi fa qualcosa di concreto, distinguendolo chiaramente da chi sfrutta il tema”.
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