La cotogna di Istanbul

Una ballata. Un ritmo antico per un’avvincente storia moderna di passione, viaggi, guerra. E nella ballata, una canzone presagio. Quella della cotogna di Istanbul.

“‘Ma voi che ne sapete dell’amore’/ diceva sospirando il
nostro Max”. Si apre così questo libro-ballata. Be’, che ne
sappiamo? Ognuno avrà certo la propria concezione di amore.
Che dopo aver letto questo libro si amplierà,
prenderà altri colori, nuova intensità.

Nel 1997 a Vienna l’ingegner Maximilian von Altenberg riceve un
telegramma con l’ordine di recarsi a Sarajevo per un’ispezione. Qui
incontrerà Maša, occhi come grani d’uva nera.
Maša occhio tartaro e femori lunghi, spalle tornite, voce
roca da contralto. Proprio lei gli canterà la canzone che ha
per oggetto la gialla cotogna di Istanbul. Una canzone d’amore e
morte. Piena di pathos. E di presagi. Una canzone di pancia, che
proprio qui rimane, una volta ascoltata. Per placare il dolore,
quando qui si manifesta con i suoi spasmi. Per acuirlo, quando qui
è così forte e vuole urlare.

 

Max, il protagonista, affida al narratore la sua storia, che
oralmente ha già attraversato varie strade del mondo,
subendo modifiche talvolta, ma certo esercitando sempre un estremo
fascino su tutti gli ascoltatori. Una storia in cui si incontrano
persone, luoghi, fatti, lingue. Uno splendido racconto (epico,
sì possiamo dirlo) che racconta con semplicità e
maestria il tema che da sempre affascina e fa emozionare, ci entra
nel sangue: l’amore.

 

E se la ballata antica veniva accompagnata dal canto e dai
danzatori, sembra di sentire e vedere entrambi leggendo questo
libro. Si sente la musica dei versi, delle lingue. Dei sussurri e
degli urli. E si vedono i personaggi in movimento, in una danza
costante. Un continuo movimento che ha per forza propulsiva lei: la
passione.

 

Così, nelle stanze di questa ballata, le stanze della
memoria che aprendosi si fanno collettive, scopriamo la storia di
Maša e dei suoi tre amori, raccontata dal narratore che ci
dice: “Io che l’ho ascoltato,/ per farvi provare lo stesso brivido/
le sue parole cercherò di usare/ e riprodurre la sua
cadenza,/ così che la scrittura ‘miserabile’/ somigli almeno
un poco a quella voce”. Quella voce che restituisce la potenza, la
carica, l’energia alla parola. La parola antichissima, ma
così contemporanea. Quella che va rispettata. Capita.
Ascoltata.

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