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Le terre sottratte dalle multinazionali con il land grabbing potrebbero sfamare milioni di persone. Ecco cosa dice un controverso studio italo-americano
Se le terre sottratte ai Paesi in via di sviluppo dalle multinazionali con la pratica del land grabbing fossero coltivate con le tecnologie più moderne, si potrebbe porre fine o quasi al problema della malnutrizione nel mondo.
È questa la tesi di uno studio congiunto del Politecnico di Milano e dell’Università della Virginia, coordinato rispettivamente da Maria Cristina Rulli e Paolo D’Odorico, che quantifica le rese dei terreni sottratti alle popolazioni locali nei Paesi più poveri del pianeta. Secondo lo studio, dal titolo Food appropriation through large scale land acquisitions pubblicato su Environmental Research Letters, queste aree agricole potrebbero sfamare fino a 550 milioni di persone, nel caso in cui venissero applicate le più moderne tecnologie di coltivazione e fino a 370 milioni senza utilizzare tecnologia per migliorare le rese.
La ricerca, che appare controversa e che sembra sottovalutare le ricadute sociali della pratica del land grabbing, fornisce solo una stima quantitativa che prende in considerazione l’estensione dei terreni acquisiti e la loro massima resa.
Sempre secondo lo studio, i paesi più coinvolti nel fenomeno del land grabbing sarebbero l’Indonesia, seguita dalla Malesia, dalla Papua Nuova Guinea e dall’ex Sudan. La resa massima dei terreni qui acquisiti ammonterebbe all’82 per cento delle calorie ottenibili dalla coltivazione di tutte le terre sottratte.
Nell’estratto della ricerca si legge che i numeri sopra citati destano preoccupazione perché “il cibo prodotto nei terreni sottratti è generalmente esportato in altre regioni, mentre i Paesi stessi in cui sono presenti i campi presentano alti livelli di malnutrizione. Al contrario, se il cibo fosse stato destinato al consumo interno, i prodotti raccolti in questi terreni avrebbero potuto garantire la sicurezza alimentare alle popolazioni locali“.
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