
Nel suo primo anno di presidenza argentina Javier Milei ha introdotto pesanti tagli alla spesa pubblica, facendo impennare la povertà. Ora i pensionati guidano la protesta.
I missili non smettono di colpire Step’anakert. Il conflitto del Nagorno Karabakh sta radendo al suolo case e ospedali, uccidendo migliaia di persone.
Sono ormai trascorsi dieci giorni da quando, alle porte d’Europa, nel Caucaso meridionale, è esploso nuovamente il conflitto decennale del Nagorno Karabakh. Per comprendere quanto sta avvenendo oggi nella regione contesa, occorre però riavvolgere il rocchetto della storia e risalire all’epoca sovietica quando il Nagorno Karabakh, o Artsakh, come chiamano questa terra le genti che l’abitano, sebbene fosse popolato per la stragrande maggioranza da uomini e donne armeni, venne ceduto nel 1921 da Stalin all’Azerbaigian che voleva fare di questa nazione un avamposto per l’esportazione della rivoluzione bolscevica in Turchia.
Poi arrivarono gli anni Ottanta e, prima ancora che l’Unione Sovietica crollasse sui suoi stessi cardini, decine di migliaia di armeni chiesero l’indipendenza da Baku. La secessione non avvenne; si accentuò invece la tensione tra la comunità azera e armena e si registrarono progrom e massacri da ambo le parti, prodromi della guerra che insanguinò la regione dal 1992 al 1994 e che costò la vita a oltre 30mila persone.
Solo un cessate il fuoco e un flebile accordo di pace misero fine al conflitto che ridusse il territorio in uno stato di povertà estrema e vide la vittoria finale degli armeni che occuparono l’intera regione e proclamarono la nascita della repubblica del Karabakh, non riconosciuta ad oggi da nessuno stato al mondo, neppure dalla stessa Armenia. Formalmente però, in base agli accordi e alle risoluzioni internazionali il Nagorno Karabakh tutt’ora appartiene all’Azerbaigian ed è questo il motivo per cui si combatte: gli azeri rivendicano il Karabakh in nome del diritto giuridico, gli armeni, invece, in nome dell’autodeterminazione dei popoli.
Decenni di attacchi e affronti diplomatici hanno portato a un’esasperazione dei nazionalismi su entrambi i lati del fronte e questo irredentismo sempre più pugnace ha portato a numerosi scontri militari, ma mai prima d’ora si era registrato quanto sta accadendo da domenica 27 settembre, quando il governo di Aliyev, con il supporto del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha lanciato una pesante offensiva contro l’Artsakh bombardando con missili, droni, aviazione e artiglieria l’intero territorio del Karabakh, compresa la capitale Step’anakert.
Step’anakert è una città spettrale, con le strade deserte, dove l’eco delle sirene che annunciano un imminente bombardamento è incessante, ossessivo, un urlo continuo che echeggia nelle orecchie e paralizza perché se ci sono sirene ci sono bombe e se ci sono bombe ci sono morti.
I missili balistici cadono senza tregua sulla capitale dell’Artsakh, la gente non esce più di casa ma vive nei rifugi, sottoterra, oppure in qualsiasi locale con mura abbastanza solide da reggere l’onda di urto di un razzo.
”Viviamo qui da più di una settimana, non possiamo tornare nelle nostre case, siamo terrorizzati e distrutti”. Così urla Aida, una donna di 65 anni che con altre cinquanta persone alberga in quello che un tempo era un bar e oggi un alloggio per sfollati. Alcuni militari dormono sui divani abbracciati ai propri kalashnikov, altri invece stanno di guardia con gli occhi gonfi di sonno e di lacrime.
”Ci sono solo due bagni, il cibo viene portato dai camion delle milizie popolari, gli azeri stanno colpendo i civili indiscriminatamente”. Racconta Ashto, un uomo di 35 anni che, però, si interrompe quando improvvisa la sirena preannuncia un nuovo attacco dal cielo. Tutti corrono nella sala interna del locale, un’esplosione, un’altra e un’altra ancora: c’è chi grida, chi piange, chi impreca e dopo pochi istanti incominciano a sentirsi anche le sirene delle ambulanze.
I feriti vengono portati in ospedale con qualsiasi mezzo disponibile e Karen Daviziyan, medico traumatologo, spiega: ”Dopo ogni bombardamento riceviamo circa 100 feriti e la maggior parte di questi ha schegge in tutto il corpo: nelle gambe, nelle mani e anche nel cervello. Sopratutto quando cadono le cluster bombs”. Un razzo sorvola l’ospedale e tutti corrono a ripararsi negli scantinati del nosocomio dove sono state allestite sale operatorie e corsie con barelle e brande.
Infermieri e medici da giorni non escono dai propri reparti; dormono avvolti in coperte logore e su materassi sfondati gettati per terra: non è possibile riposare, mai. Le urla di una donna richiamano i presenti. Suo marito è riverso su una barella, un infermiere chiede dell’adrenalina, ma ormai è troppo tardi; una bomba ha distrutto il bunker in cui si trovava: è stato investito dall’esplosione e non è stata sufficiente una corsa in ambulanza verso l’ospedale per poterlo salvare. Nuvole di fumo nero continuano ad alzarsi in tutta Step’anakert, la Sarajevo del Caucaso perché, proprio come nei Balcani, anche qui sta andando in scena un assedio che sta vedendo morire, oltre che gli uomini, anche il più sottile racimolo di umanità.
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