
L’aumento delle temperature combinato all’innalzamento dei livelli di anidride carbonica nell’aria, causerebbe una maggiore concentrazione di arsenico nel riso, con effetti tossicologici in chi lo consuma.
L’olio alimentare esausto è riciclabile al 100 per cento per la produzione di biocarburanti, ma la mancanza di informazione e di punti di conferimento limitano la raccolta.
Dove va a finire l’olio alimentare esausto? Nelle cucine d’Italia se ne raccoglie solo un terzo, mentre il resto, non correttamente smaltito e disperso nell’ambiente, si traduce in inquinamento di suolo e acqua, senza contare i 16 milioni di euro di perdita economica per il mancato riciclo.
A rivelarlo è il dossier “Scusa, mi ricicli l’olio?”, realizzato dal magazine economiacircolare.com in collaborazione con l’app Junker, con l’obiettivo di sensibilizzare sul corretto smaltimento dell’olio alimentare esausto e sul suo possibile riutilizzo: una filiera circolare dalle grandi potenzialità che però non vengono sufficientemente sfruttate.
L’olio di scarto delle cucine, da quello utilizzato per il fritto a quello nelle scatolette e nei barattoli delle conserve, può avere una seconda vita: si può riciclare al 100 per cento, infatti, per produrre biocarburanti, ma anche bio-lubrificanti per macchine agricole e nautiche, saponi, cosmetici e inchiostri.
Nel nostro paese, secondo una stima dei consorzi di filiera Conoe e Renoils, nel 2020 sono state raccolte, però, appena 80mila tonnellate di olio alimentare su 290mila tonnellate prodotte. Il paradosso è che in Italia vengono riutilizzate 200mila tonnellate d’olio esausto in gran parte importate dall’estero, mentre nelle cucine italiane l’olio avanzato continua a finire negli scarichi.
Le ragioni di questa dispersione, stando al rapporto, sono la scarsa informazione ai cittadini sul corretto smaltimento e la mancanza di punti di raccolta. Secondo la mappatura realizzata nel dossier, in tutta la penisola esistono 1.500 punti di raccolta di oli esausti: appena 1 ogni 39mila abitanti.
Gli oli alimentari dispersi in natura sono dannosi: inquinano l’acqua e il sottosuolo. Possono trasformarsi in una barriera per il nutrimento delle piante nel terreno o possono impedire l’ossigenazione del mare. Inoltre l’olio può ostacolare il funzionamento della rete fognaria e il lavoro dei depuratori incrementando i costi di gestione degli stessi. Infine, nel caso arrivasse alla falda acquifera, potrebbe compromettere la potabilità dell’acqua.
Se un chilogrammo di olio vegetale esausto può inquinare una superficie d’acqua di mille metri quadrati, per ogni tonnellata di olio vegetale esausto raccolto e trasformato in energia sarebbe possibile evitare di immettere in atmosfera una quantità di CO2 equivalente pari a circa 2,5 tonnellate.
Delle 290mila tonnellate di olio alimentare esausto prodotto, il 38 per cento proviene da attività professionali come le industrie e i ristoranti che sono obbligati a raccoglierlo, mentre il 62 per cento proviene dall’ambito domestico dove, in mancanza di obblighi di legge, si raccoglie solo il 5 per cento del rifiuto prodotto. A dirlo è il presidente di Conoe Tommaso Campanile.
Spetta ai singoli Comuni promuovere la raccolta dell’olio alimentare esausto, come avviene per gli altri rifiuti. Indipendentemente dalle iniziative locali, le buone pratiche richiedono che l’olio utilizzato per la frittura o quello delle scatolette di tonno (che peraltro si può riutilizzare come condimento) non venga gettato negli scarichi di wc e lavandini o nella spazzatura, ma venga travasato in un contenitore che, una volta pieno, deve essere conferito all’isola ecologica del proprio territorio o nei punti di raccolta, come quelli all’interno di alcune catene di supermercati.
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