Continua la battaglia legale per liberare i giornalisti birmani di Reuters

Gli avvocati dei due giornalisti birmani condannati a 7 anni hanno fatto ricorso in appello per la loro liberazione. Le testimonianze di Stephen Adler, Amal Clooney e Than Zaw Aunh.

Com’era prevedibile, la battaglia legale per liberare i giornalisti birmani della Reuters continua. Gli avvocati di Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono ricorsi in appello perché ritengono “sbagliata” la sentenza a sette anni di carcere inflitta lo scorso 3 settembre dal tribunale del distretto nord di Yangon. Oltre che totalmente ingiusta.

Amal Clooney al lavoro come avvocato. Marzo, 2017 in New York City. ©Drew Angerer/Getty Images
Amal Clooney al lavoro come avvocato. Marzo, 2017 in New York City © Drew Angerer/Getty Images

Il presidente e caporedattore di Reuters, Stephen J Adler, ha spiegato la necessità di ricorrere in appello: “Condannandoli come spie, hanno ignorato l’evidenza che la polizia ha montato il caso, le violazioni a un processo equo e l’incapacità di provare ogni elemento chiave del crimine”.

L’avvocato difensore, Than Zaw Aunh, ha aggiunto con grande sicurezza: “La Corte d’appello troverà molti errori nel verdetto […]. Alla fine garantirà la giustizia per Wa Lone e Kyaw Soe Oo. Dichiarerà la loro innocenza e dimostrerà che il giornalismo in Myanmar non è un crimine”.  Than Zaw è un legale molto noto nell’ex Birmania. Dopo la “rivoluzione zafferano” del 2007, ha rappresentato diversi monaci che vi avevano preso parte, come U GamBiYa, ma anche gli ex studenti delle proteste contro la giunta militare del 1988, membri della Lega nazionale per la democrazia, il partito dell’attuale leader de facto Aung San Suu Kyi, e altri attivisti politici.

Giornalisti birmani sotto attacco. Dov’è la democrazia?

Nel documento di appello (inviatoci da Reuters) si ricorda che i due giovani reporter e padri di famiglia al momento dell’arresto (12 dicembre 2017) stavano indagando sulle esecuzioni extragiudiziali commesse dall’esercito birmano contro la minoranza musulmana rohingya, nello stato Rakhine del Myanmar. Alcuni poliziotti di Yangon li avrebbero invitati con una scusa, fermati, interrogati, torturati.

Non avendo ottenuto alcuna risposta su chi fossero le loro fonti locali e la promessa di non pubblicare quanto scoperto per Reuters, gli avrebbero messo in mano dei documenti per accusarli di violazione del segreto di Stato. Quei fogli, però, non erano segreti, ma già resi pubblici con tanto di datazione. E tra gli stessi poliziotti c’è chi ha confessato che si è trattato di una farsa e chi è caduto in numerose contraddizioni.

campagna Amnesty
Immagine della campagna Amnesty International per liberare Wa Lone e Kyaw Soe Oo

I due giornalisti birmani sono solamente responsabili di aver assistito e raccontato (in un’inchiesta fatta uscire da Reuters a febbraio, in seguito alla loro carcerazione) l’uccisione di dieci musulmani nel villaggio di Inn Din da parte di forze paramilitari birmane. Si tratta di uno dei tanti crimini commessi dal regime birmano, a grande maggioranza buddista e ultra-nazionalista, che l’Onu ha condannato come “pulizia etnica”.

Leggi anche: 7 anni di carcere ai reporter Reuters arrestati in Myanmar, dove il giornalismo resta un crimine

È stata chiarissima Amal Alamuddin Clooney, che fa parte della squadra di avvocati difensori dei due inviati speciali birmani e di Reuters: “Mentre siamo qui riuniti oggi, due giornalisti sono in prigione per non aver fatto nient’altro che dire la verità”. L’avvocatessa ha parlato per la prima volta del caso birmano in una conferenza organizzata lo scorso 28 settembre all’interno del palazzo delle Nazioni Unite di New York, con la collaborazione del Committe to protect journalists.

Dopo aver elencato nel dettaglio le ragioni per cui il processo è stato un “errore giudiziario” e dopo averlo definito “una parodia della giustizia”, Amal Clooney si è rivolta ad Aung San Suu Kyi, consigliere di stato, ministro degli esteri e dell’ufficio del presidente: “Secondo l’articolo 204 della costituzione del Myanmar, il presidente può concedere la grazia in ogni momento della detenzione. Basta che si consulti con la leader (de facto, ndr) Aung San Suu Kyi, che nel suo primo giorno al governo ha definito sua priorità rilasciare i prigionieri di coscienza”.

Esodo Rohingya. Novembre 2017. ©Kevin Frayer/Getty Images
Esodo Rohingya. Novembre 2017 © Kevin Frayer/Getty Images

Purtroppo Clooney prosegue ricordando che le famiglie hanno già chiesto di graziare i due uomini e che Suu Kyi ha appoggiato questa condanna “draconiana” e sfidato chiunque avesse letto le carte del verdetto a spiegare che cosa ci fosse di sbagliato. L’avvocatessa, esperta in diritto internazionale, si è offerta di farlo: “È mio dovere”, ha aggiunto, rammentando di quando la Nobel per la Pace, da strenua sostenitrice della democrazia e oppositrice della dittatura militare birmana, diceva che la libertà comincia con la libertà di parola. Ripensando ai quei giorni da studentessa a Oxford due decenni fa, in cui la vedeva come un’eroina.

Altrettanto incisivo e commovente è stato il discorso, sempre a Palazzo di vetro, di Stephen Adler, che parte dalla storia, dalle vittime: “Il più anziano aveva 45 anni, il più giovane solo 17. Sono stati bendati, fatti inginocchiare, condotti sopra una collina, colpiti con delle sciabole e fucilati. I loro corpi sono stati gettati in una fossa comune”.

Il giornalista Wa Lone arrestato a Yangon, 3 Settembre, 2018
Il giornalista Wa Lone arrestato a Yangon, 3 Settembre, 2018 © Ann Wang/REUTERS

Il giornalista statunitense ha continuato: “Wa Lone e Kyaw Soe Oo lavorano per Reuters, l’azienda d’informazione che io dirigo. Noi siamo a conoscenza di questo massacro perché loro hanno fatto ciò che fanno i bravi reporter. Hanno parlato con delle fonti; si sono recati sul luogo del presunto incidente; hanno intervistato i testimoni dell’intera vicenda, raccolto prove documentarie e visto la scena del crimine con i loro occhi”. Adler ha ribadito che Reuters non si farà intimidire da questa vicenda e ha descritto con queste parole l’approccio dei suoi collaboratori imprigionati ingiustamente: “Open mind (senza pregiudizi) e aderente ai fatti”.

La domanda evocata sia da Adler che dagli avvocati difensori è la stessa che la comunità internazionale ripete dal “grande esodo”, cioè a partire dal 25 agosto 2017, quando oltre 700mila rohingya sono fuggiti dal Myanmar in Bangladesh, perché perseguitati dalle forze di sicurezza birmane e dai civili (buddisti di etnia rakhine) da esse assoldati: come può il Myanmar transitare da un regime militare a una democrazia se ancora si compiono abusi tipici di una dittatura, e crimini di guerra e contro l’umanità?

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