Sulle sponde del lago Ciad, la crisi umanitaria più complessa dei nostri giorni

Desertificazione, violenza, insicurezza alimentare, corruzione. Il bacino del lago Ciad sta affrontando il peggior disastro umanitario al mondo, devastato da una serie di fattori interconnessi, dai cambiamenti climatici all’estremismo di Boko Haram.

È una distesa di sabbia infinita il Sahara meridionale. Pietre, pochi arbusti, carcasse di vacche e villaggi abbandonati. Un oceano ardente di arena e morte che occorre percorrere per dirigersi da N’Djamena, la capitale del Ciad, a Bol, il principale centro rivierasco sulle sponde del lago Ciad, dove oggi è in corso il più complesso disastro umanitario dei nostri giorni.

La crisi del lago Ciad
Bol, Ciad, Africa. 16 ottobre 2018. Uno scorcio di Bol, la capitale della regione Lac. Bol si trovava sulle sponde del lago Ciad, prima che si restringesse © Marco Gualazzini

Un mare d’acqua dolce perso nel cuore del Sahel

Dagli anni Sessanta a oggi il bacino del lago Ciad ha perso il 90 per cento della sua superficie. Ad aver causato il prosciugamento di quello che era il quarto lago più grande d’Africa, considerato un mare d’acqua dolce nel cuore del Sahel, sono stati diversi fattori ma in particolare, la costruzione di dighe sui fiumi immissari e i cambiamenti climatici, che negli ultimi anni ha portato a un’inclemente avanzata del deserto. Le sabbie si stanno sostituendo alle acque e le genti che popolano questa zona vivono sotto assedio della desertificazione e del terrorismo islamista di Boko Haram che approfittando di questa tragedia ambientale ha allargato i confini del Califfato d’Africa, portando il jihad dalla Nigeria in Niger, Camerun e Ciad.

La crisi del lago Ciad
Bol, Ciad, Africa. 15 ottobre 2018. Il lago Ciad è vittima della desertificazione che sta minacciando l’esistenza delle persone che vivono sulle sue sponde e gli ecosistemi delle sue acque. Una volta era il quarto lago più grande dell’Africa, ma dagli anni ’50 la sua superficie si è ridotta del 90% © Marco Gualazzini

Un’umanità prigioniera

Capanne di frasche, pochi e piccoli pesci stesi ad essiccare e un’umanità prigioniera della fame, delle temperature che raggiungono i 50 gradi e dell’assenza di ogni bene primario è ciò che si presenta con una violenza che disarma e paralizza appena sbarcati sull’isola di Yiga, nel cuore del lago Ciad. Una donna esausta giace sulla sabbia, avvolta in un velo color porpora: poco distante da lei, una madre allatta una neonata che sembra cercare, in uno seno sfiorito dalla sofferenza, l’ultima lacrima di vita. Una bambina aiuta la sorella più piccola a bere dell’acqua sporca che ha appena attinto dal lago e non esiste spazio in cui la luce conceda tregua.

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Seduto all’interno di una capanna c’è il capo della comunità, il boulama Motoye Dogouroumi. È lui a spiegare la situazione: ”Ci siamo rifugiati su quest’isola dopo che i terroristi di Boko Haram sono arrivati nel nostro villaggio. Qui vivono oltre 700 persone e non c’è nulla. Niente cibo, niente terra da poter coltivare, la sola acqua che beviamo è quella del lago, che spesso causa dolori di stomaco e malattie, perché non è pulita. I pesci stanno scomparendo e presto anche le persone moriranno. Stiamo vivendo una catastrofe e ormai anche il tempo per intervenire sta per esaurirsi. Se non viene trovata una soluzione, si verificherà una tragedia senza pari”.

Un tempo il lago era ricchezza

Il capo della comunità inoltre setaccia la memoria alla ricerca di un ricordo di vita e così prosegue: “Un tempo c’erano tanti pesci, animali e campi, ero un bambino quando vivevamo in pace e pescavamo e il lago era la nostra ricchezza. Poi è iniziata la crisi e ora è una vera e propria emergenza”. Le parole del capo del villaggio trovano conferma in quanto raccontano i pescatori che cercano, con vecchie piroghe fatte con legni ormai marci e reti logore dalla miseria, di catturare alcuni piccoli pesci.

“Non abbiamo soldi per comprare reti e piroghe nuove e i pesci che catturiamo sono pochi e troppo piccoli. L’avanzata del deserto sta mettendo a repentaglio le nostre vite, ma non possiamo arrenderci: dobbiamo in tutti i modi cercare di trovare un modo per sopravvivere”. I pescatori, in tutto il mondo sono come monaci che vivono nel silenzio, attenti a non fare rumore, premurosi nel non disturbare e anche qui in Ciad, seduti sulla riva interrompono una quiete satura di tragedia, solo per genuflettersi e chiedere un disperato e ultimo aiuto ad Allah.

La crisi del lago Ciad
Ciad, Africa. 17 ottobre 2018. Nel villaggio di Melea, a 25 km da Bol, c’è un centro sanitario improvvisato in condizioni estreme © Marco Gualazzini

Negli ultimi mesi, una presa di coscienza internazionale sulla crisi ambientale che sta affliggendo il bacino del lago Ciad ha portato lo stesso segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres a lanciare un appello per un intervento urgente nell’area. L’idea è quella di avviare un forum internazionale per trovare fondi e partner e procedere poi con la realizzazione di un progetto che prevede, attraverso la costruzione di canali e dighe, il trasferimento di oltre 100 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno dal fiume Congo al lago Ciad. Ma la crisi che sta colpendo la regione saheliana ora non è soltanto una catastrofe ambientale: la popolazione è  vessata anche dall’espansione dello jihadismo di Boko Haram.

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La crisi del lago Ciad
Dar es Salam, Ciad, Africa. 17 ottobre 2018. Madu Walli Alhadji Affeni, 26 anni, è stato prigioniero di Boko Haram per 2 anni. Era costretto a lavorare la terra fino al giorno in cui è riuscito a scappare © Marco Gualazzini

Lo jihadismo come estremo appiglio alla sopravvivenza

”Il terrorismo della setta jihadista Boko Haram ha approfittato di questa situazione di crisi per penetrare nella regione del lago, fare proselitismo, reclutare nuovi combattenti e nuovi affiliati ed espandere i confini del califfato in Africa occidentale”. A parlare è Ahmat Yacoub, presidente e fondatore del Centro di studi per lo sviluppo e la prevenzione dell’estremismo, il primo centro di de-radicalizzazione che mira a combattere lo jihadismo e il proselitismo islamista attraverso un lavoro di sensibilizzazione e informazione culturale.

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Melea, Ciad, Africa. 17 ottobre 2018. Ababakar Mbomi, un attivista anti-jihadosmo, è stato ferito con 11 colpi di fucile durante il rapimento di sua moglie Babai Mahamat Kolita, 30 anni, nel 2014 da parte dei terroristi di Boko Haram © Marco Gualazzini

Ed è sempre il presidente a proseguire dicendo: ”I ribelli jihadisti approfittano di questa situazione di disperazione e ignoranza per allargare le loro fila. L’avanzata del deserto, la mancanza di acqua, di cibo, di infrastrutture, di qualsiasi bene, ha portato le popolazioni a vedere nello jihadismo l’estremo appiglio alla sopravvivenza e quindi finché ci sarà fame e miseria ci sarà Boko Haram”.

Le parole del presidente del centro trovano conferma in quelle di un ex guerrigliero jihadista: Abdulay Tidjani. L’uomo è un ex soldato di Boko Haram, ha trascorso tre anni della sua vita tra le fila dei guerriglieri islamisti e oggi lavora facendo il falegname. È seduto nel buio di una madrassa nella città di Bol e senza scomporsi e non abbassando mai gli occhi, così inizia il suo racconto.

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Gomirom Domouli, Ciad, Africa. 18 ottobre 2018. Halima Adama faceva parte del gruppo terroristico Boko Haram. Halima è una kamizaze sopravvissuta a un attacco suicida fatto da lei stessa. Questa giovane donna, oggi ventenne, è stata obbligata a fare questo tipo di attacchi dall’età di 18 anni.
Non è morta nell’esplosione, ma ha perso entrambe le gambe ed è tornata a vivere nel villaggio della sua famiglia a Domirom Domouli © Marco Gualazzini

Ricominciare nonostante tanto orrore

”Io sono nigeriano e facevo il commerciante. Ero al lavoro quando i terroristi sono arrivati e hanno costretto me e altri uomini a diventare dei combattenti. Non avevo scelta e così mi sono unito a loro. Da subito mi hanno portato in un campo d’addestramento ed è iniziata la formazione militare. Ho imparato a combattere col pugnale, a sparare col kalashnikov e a lanciare le granate. Mi davano da mangiare tre volte al giorno, non soffrivo la fame. Terminato l’addestramento mi hanno poi mandato in battaglia. Prima di andare ad attaccare i villaggi o le postazioni dei militari ci facevano pregare; gli imam ci dicevano di uccidere perché era il volere di Allah”.

La crisi del lago Ciad
Melea, Ciad, Africa. 17 ottobre 2018. Maria Hassan, 20 anni. Rapita dal villaggio di Couta dal gruppo Boko Haram. Obbligata a sposare uno degli estremisti, con cui ha avuto un bambino. Oggi, dopo essere riuscita a fuggire, vive da sola e si descrive come una “donna senza passato” © Marco Gualazzini

L’ex guerrigliero poi confessa. ”Partecipavo ai combattimenti, saccheggiavamo i villaggi, poi però è arrivato un giorno in cui non ce l’ho più fatta a vedere gente uccisa senza ragione. E da quel momento non ho desiderato altro che fuggire. Vorrei ritornare alla mia vita di sempre, a prima di tutto questo, ma come si può tornare indietro dopo tanto orrore?”.

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