Il settore automotive sta vivendo una trasformazione epocale. Passare all’elettrico non basta, serve ripensare l’intera filiera, le competenze e le tecnologie. A dirlo i dati della ricerca condotta dal Politecnico di Milano per Geely Italia.
Lo scandalo denominato Dieselgate ha avuto inizio a settembre 2015 quando l’Epa, l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente, ha rilevato come a bordo di oltre 500mila vetture appartenenti al Gruppo Volkswagen e commercializzate negli Stati Uniti venisse adottato un dispositivo in grado di riconoscere le procedure per il controllo delle emissioni, così da alterare temporaneamente
Lo scandalo denominato Dieselgate ha avuto inizio a settembre 2015 quando l’Epa, l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente, ha rilevato come a bordo di oltre 500mila vetture appartenenti al Gruppo Volkswagen e commercializzate negli Stati Uniti venisse adottato un dispositivo in grado di riconoscere le procedure per il controllo delle emissioni, così da alterare temporaneamente i dati e, una volta superati i test, tornare a emettere ossidi d’azoto sino a quaranta volte superiori al consentito. A mettere l’Epa sulle tracce del costruttore tedesco è stato uno studio commissionato dall’International Council on Clean Transportation (Icct) – ente statunitense indipendente dedito all’analisi della sostenibilità dei trasporti – e basato sulle discrepanze tra le prove condotte in Europa in sede d’omologazione e quelle sul campo realizzate in America. Dopo aver scoperchiato il vaso di Pandora, ora l’istituto si spinge oltre, affermando provocatoriamente che le moderne vetture Diesel Euro 6 inquinano (in proporzione) di più rispetto a camion e autobus.
L’analisi condotta dall’Icct prende spunto da una ricerca condotta in Finlandia e Germania secondo la quale, effettuando dei test su strada anziché al banco, vale a dire “in laboratorio”, la media delle emissioni di ossidi d’azoto (NOx) attribuibile ai più recenti camion e autobus alimentati a gasolio si attesterebbe a 210 milligrammi per chilometro, mentre le vetture Diesel omologate Euro 6 toccherebbero i 500 mg/km. Quest’ultimo valore, tenendo conto della diversa mole e cilindrata che caratterizzano le categorie di veicoli sotto esame, in proporzione sino a dieci volte superiore e in ogni caso distantissimo dal limite degli 80 mg/km previsto per legge. Il monito lanciato dall’Istituto americano non vuole essere la denuncia di un nuovo scandalo, quanto piuttosto un richiamo alla necessità di uniformare i metodi di rilevamento delle emissioni. Se, infatti, i mezzi pesanti devono già sottostare ad alcune prove sul campo, le autovetture sono tuttora esentate.
Grazie alla direttiva UE 91/441/CE, il ciclo Nedc (New European Driving Cycle) è divenuto protagonista assoluto del mondo automotive imponendo una procedura comune per la misurazione dei consumi e delle emissioni inquinanti di ogni veicolo adibito al trasporto di persone. Procedura che, in linea teorica, dovrebbe replicare le condizioni di guida tipiche per ogni automobilista. Un proposito rivelatosi infondato, dato che sino ad oggi i rilevamenti sono stati effettuati mediante banchi a rulli, quindi in assenza delle variabili – ad esempio la resistenza al rotolamento degli pneumatici e l’impatto dell’aerodinamica – tipiche della marcia su strada. Durante i test, in aggiunta, acceleratore, cambio e freni sono gestiti da un computer. Un’anomalia destinata ad avere fine grazie al nuovo ciclo di misurazione Rde (Real Driving Emission).
Il ciclo Rde mira a rilevare i consumi e gli inquinanti effettivi durante la guida su strada. In corso di approvazione da parte del Parlamento europeo, la nuova metodologia si basa sui Pems, acronimo di Portable Emission Measuring Systems: dispositivi montati a bordo delle vetture che permettono di misurare le emissioni in tempo reale. In linea di principio un netto passo avanti nella direzione della trasparenza, se non fosse che, ad oggi, non esiste un equipaggiamento standard per effettuare i test. Ciò significa che la strumentazione potrebbe fornire risultati lievemente diversi da produttore a produttore. In aggiunta, dato che le prove avverranno su strada pubblica alternando tratti urbani, extraurbani e autostrade, l’influenza climatica potrebbe rivelarsi tutt’altro che marginale, costringendo a ripetere più volte i rilevamenti nel corso dell’anno. Tanta approssimazione, se non eliminata, rischia di rendere il ciclo Rde un supporto al sistema Nedc, ma non un’alternativa in tutto e per tutto, in attesa dello standard universale Wltp (Worldwide harmonized Light vehicles Test Procedure), ancora lungi dall’essere definito.
L’introduzione del sistema Rde in Europa – negli Stati Uniti non è previsto – avverrà in due fasi: le case costruttrici dovranno innanzitutto ridurre il divario tra le emissioni “da laboratorio” e quelle reali rispettando un fattore di conformità di 2,1 (quindi con una tolleranza del 110 per cento) entro settembre 2017 per i nuovi modelli e non oltre settembre 2019 per le auto di nuova progettazione. In un secondo momento, tale divario verrà ricondotto per tutti i veicoli a un fattore di 1,5 (vale a dire con una tolleranza del 50 per cento) entro gennaio 2021. Un obiettivo tanto più importante qualora si consideri che recenti studi effettuati dal ministero della Salute canadese su di un campione di 6,6 milioni di persone hanno dimostrato come vi sia una correlazione diretta tra l’esposizione a elevati livelli di smog e la progressione delle malattie neurodegenerative, in special modo il morbo di Alzheimer. Una rivoluzione (trasparente) è quanto mai necessaria.
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