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In Canada si trova la maggior parte delle sabbie bituminose del pianeta, da esse si ricaverà il petrolio per i prossimi decenni.
È il petrolio da sabbie bituminose il nuovo oro nero. Una riserva che Exxonmobil e Bp stimano in circa 170 milioni di barili e che nel 2040 coprirà il 25 per cento della domanda di petrolio del Nord e del Sud America. Una produzione che nel corso dei prossimi due decenni crescerà più del doppio, passando da 1,5 milioni di barili al giorno a 3,7 – 5,4 milioni di barili al giorno.
Il bitume, una sorta di petrolio denso è viscoso, simile nel colore e nell’odore, si trova in natura miscelato in diverse percentuali a sabbia, acqua e argilla. Ci sono due teorie principali che ne spiegano la formazione: una prevede che provenga da petrolio degradato nel tempo da microrganismi fino a trasformarlo in bitume, mentre l’altra prevede che si sia evoluto da enormi giacimenti di scisti bituminosi (una roccia estremamente organica) formatisi durante il Cretacico. Comunque una riserva enorme di carbonio, testimone dell’antica vita sul pianeta.
La maggior parte delle sabbie bituminose del pianeta sono localizzate in una sola regione del Canada, precisamente in Alberta, nell’area dove scorre il fiume Athabasca e nell’area del Cold Lake. Altre riserve si trovano in Russia, Kazakistan e minori in Madagascar.
Per estrarlo si utilizzano principalmente due metodi, che dipendono dalla profondità a cui si trovano le miniere. Se a cielo aperto, la sabbia viene estratta da escavatori subito al di sotto dello strato di torba dell’area umida circostante. Una volta trasportata viene mescolata ad acqua calda e NaOH (soda caustica) e da qui viene estratto il bitume.
Se sotterraneo, il bitume viene estratto o pompando all’interno del vapore (il cosidetto Cycle Steam Stimulation) o con un sistema denominato SAGD, ovvero drenaggio per gravità assistito dal vapore, dove il vapore, alimentato attraverso condutture sotterranee, permette di liquefare il bitume nelle sabbie circostanti, quando viene rilasciato. I principali elementi utilizzati sono quindi l’acqua e i solventi.
Il petrolio viene così estratto utilizzando enormi quantità d’acqua provenienti per la maggior parte dal fiume Athabasca, oltre al fatto che vengono liberati in atmosfera gas ad effetto serra e metalli pesanti come cobalto, nichel, vanadio, piombo, mercurio, cromo e altri.
Secondo i dati forniti da Greenpeace Canada, ma anche da altre associazioni ambientaliste come 350.org e Patagonia, ogni anno il fiume viene depauperato di 370 milioni di metri cubi di acqua, pari al doppio della domanda dell’intera città di Calgary (con una popolazione di circa 1.300.000 individui). Acqua che finisce in vasche di decantazione.
Secondo Exxonmobil, il suo utilizzo è stato ridotto del 30 per cento, utilizzando la stessa acqua presente nelle sabbie. Non è l’acqua il solo effetto collaterale. Basta guardare le immagini da satellite (sopra), per vedere che una larghissima fetta di foresta boreale e di aree umide, è stata letteralmente spazzata via. D’altro canto, sempre ExxonMobil, ha previsto la piantumazione di circa 800 mila piante, tra alberi e arbusti, ripristinando un’area di circa 600 mila ettari.
Un’estrazione problematica, tanto da rendere questo petrolio, definito anche “non convenzionale”, una risorsa ad alta emissione di CO2. Si calcola che l’anidride carbonica prodotta ammonti al 20 per cento in più rispetto all’estrazione del petrolio tradizionale.
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