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Quando gli organismi marini ingeriscono la plastica, questa risale la catena alimentare. E’ il caso delle microplastiche che inquinano i mari, i pesci, i molluschi e i crostacei. Per poi finire nei nostri piatti.
La presenza di plastica negli oceani è un fenomeno in crescita che preoccupa gli studiosi: si stima che ogni anno arrivino in mare ben otto milioni di tonnellate di plastica, sotto forma di microsfere o di frammenti dovuti alla degradazione di altri rifiuti, come imballaggi, contenitori o altro.
Il rapporto La plastica nel piatto, dal pesce ai frutti di mare (sintesi del rapporto Plastics in seafood, Greenpeace research laboratories, 2016), realizzato da Greenpeace, raccoglie gli studi più recenti e approfonditi sia sulle microplastiche che si formano quando la plastica si spezzetta in mare in piccoli frammenti, sia sulle microsfere, particelle di plastica create per essere utilizzate nei cosmetici e in altri prodotti per l’igiene personale, come dentifrici e schiume da barba. Troppo piccole per essere filtrate dai depuratori, le microsfere scivolano nei corsi d’acqua direttamente dai nostri lavandini e si immettono negli oceani. I pesci le scambiano per cibo e le ingeriscono, e in questo modo risalgono la catena alimentare fino all’uomo.
Una volta arrivate al mare, le microplastiche possono sia assorbire che cedere sostanze tossiche. Spiega il rapporto che sono almeno 170 gli organismi marini che ingeriscono tali frammenti. Un recente studio condotto su 121 esemplari di pesci del Mediterraneo centrale, tra cui specie commerciali come il pesce spada, il tonno rosso e tonno alalunga, ha mostrato la presenza di frammenti di plastica nel 18,2 per cento dei campioni analizzati. Studi condotti su 26 specie di pesci delle coste atlantiche portoghesi hanno evidenziato la presenza di microplastiche nel 19,8 per cento dei test effettuati: i quantitativi maggiori sono stati rilevati nel lanzardo, una specie simile allo sgombro. Uno studio sugli scampi ha ritrovato la presenza di frammenti di plastica nello stomaco dell’83 per cento degli esemplari raccolti lungo le coste britanniche.
Il problema riguarda anche i molluschi di Brasile, Cina e Europa dove le microplastiche sono state trovate nelle cozze e nelle ostriche provenienti da allevamenti o raccolti direttamente in natura.
Studi effettuati su cozze raccolte lungo le coste brasiliane hanno evidenziato la presenza di microplastiche nel 75 per cento dei campioni analizzati.
Al momento non sono disponibili ricerche sufficienti per definire i possibili rischi per la salute umana, ma sono comunque stati individuati una serie di problemi collegati all’ingestione di microplastiche tramite prodotti ittici, che vanno dalla diretta interazione tra queste particelle e le cellule dell’organismo fino all’esposizione incontrollata agli additivi e ai contaminanti associati alle microplastiche. I dati disponibili, secondo Greenpeace, confermano la necessità di applicare con urgenza il principio di precauzione, vietando la produzione di microsfere e definendo regole stringenti per ridurre in generale l’utilizzo di plastica.
“Una mole crescente di prove scientifiche mostra che le microplastiche possono generare gravi conseguenze sugli organismi marini e finire nei nostri piatti. Un bando alla produzione di microsfere è, per il Governo e il Parlamento, la via più semplice per dimostrare attenzione agli effetti dell’inquinamento del mare e ai relativi rischi per la salute umana anche se è solo un primo passo per affrontare il gravissimo problema della plastica nei nostri oceani” afferma Giorgia Monti, responsabile Campagna mare di Greenpeace Italia.
Su iniziativa dell’associazione Marevivo è stata già presentata una proposta di legge. Si tratta di una misura precauzionale, al vaglio in numerosi Paesi, necessaria per fermare al più presto il consumo di questi materiali.
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