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Un ospedale ristrutturato in modo sostenibile. A Kalongo, un paese remoto in Nord Uganda, significa prima di tutto costruire una rete idrica e case in mattoni per lo staff. L’editoriale della Fondazione Ambrosoli.
La Montagna del vento, è chiamato così il Monte Oret che sovrasta il compound del Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo e ne tratteggia l’orizzonte. Tutt’intorno una distesa infinita, la savana. La prima strada asfaltata si trova a circa 150 chilometri da qui. Il primo centro urbano dista tre ore di auto, che diventano molte di più durante la stagione delle piogge che cancella i sentieri e rallenta il passo su queste strade sterrate e impervie.
Quando mi chiedono che cosa riesca a trattenere a lungo il personale dell’ospedale in quest’area così povera e remota del Nord Uganda la mia risposta è sempre la stessa: la consapevolezza di essere parte di un progetto importante che ha a che fare con la difesa della vita, con il desiderio di aiutare il prossimo sofferente, che in termini numerici si traduce in 50mila persone ogni anno che non avrebbero altrimenti possibilità di essere curati.
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Così è stato per mio zio, padre Giuseppe Ambrosoli, che qui ha fondato l’ospedale – e la scuola di ostetricia – e vi è rimasto fino al giorno della sua morte. E così è ancora oggi per i medici e gli infermieri che scelgono di restare a Kalongo. Ma non tutti ce la fanno. Perché per molti manca la cosa più importante, quella che tiene un uomo legato alla propria terra: manca una casa. Sono tanti coloro che pur lavorando in ospedale vivono ancora in capanne fatte di fango con il tetto di paglia. Alcuni, i più “fortunati”, vivono in alloggi fatiscenti e rovinati a causa della ventennale guerra civile che ha devastato case e infrastrutture.
Al termini di una lunga giornata di lavoro, durante la quale hai dato il meglio di te per il bene degli ultimi, non è facile tornare in una “casa” priva di servizi igienici e di acqua pulita. Non è facile per nessuno, neppure per chi in Uganda ci è nato. Così, spesso medici e infermieri lasciano Kalongo per cercare un luogo meno povero e isolato, dove lavorare e crescere i propri figli. La loro perdita, o meglio il loro abbandono, si ripercuote inevitabilmente sull’ospedale e sulla qualità delle cure erogate ai pazienti. Senza dimenticare che l’elevato ricambio di persone vanifica il nostro costante impegno nella formazione e preparazione del personale sanitario locale.
Per questo la Fondazione Ambrosoli vuole realizzare un importante progetto pluriennale di rinnovo e costruzione di tutte le abitazioni dello staff, una piccola città dentro il compound dell’ospedale, dove gravitano circa 900 persone. Vogliamo garantire la miglior qualità di vita possibile al personale e alle loro famiglie, che significa accessibilità all’acqua e ai servizi igienici a tutela della salute e del benessere di tutti quelli che qui lavorano e vivono e di tutti i pazienti che ogni giorno affollano le corsie dell’ospedale.
La nostra visione del futuro di Kalongo è fortemente legata alla sostenibilità in tutti i suoi aspetti, non solo quello economico, che significa anche sensibilizzazione, educazione alla salute e all’ambiente rivolta a tutta la comunità. Solo una comunità che si sente responsabile del progetto e consapevole del suo valore può garantirne la sostenibilità.
Un approccio partecipativo e educativo è fondamentale per un cambiamento culturale positivo, capace di innescare meccanismi virtuosi nelle persone e di portare progresso e crescita al Paese. “Aiutare l’Africa con gli africani”, questo è l’ideale comboniano a cui si è ispirato Padre Giuseppe Ambrosoli e questo è l’architrave su cui poggiano tutti i nostri progetti.
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