Rainbow washing: un arcobaleno non fa attivismo

Giugno, mese del Pride. Cosa significa e perché ultimamente stiamo assistendo a quello che si può definire rainbow washing.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 1969: nella notte tra il 27 e il 28 giugno la polizia di New York fece irruzione in un locale del Greenwich Village, lo Stonewall Inn, storico ritrovo della comunità gay newyorkese, in una delle frequenti retate dell’epoca. Dobbiamo ricordarci il contesto sociale in cui avveniva: negli Stati Uniti degli anni Sessanta l’omosessualità era considerata una malattia mentale, e si poteva venire arrestati se vestiti da donna o se trovati a ballare con una persona dello stesso sesso. I fatti di quella notte non vennero mai veramente chiariti, ma quella notte scattò il primo vero atto di ribellione contro un trattamento ingiusto da parte delle forze dell’ordine, che nei giorni a seguire non fece che crescere, sancendo una volta per tutte l’esistenza di un movimento, quello lgbtqia+, che reclamava i propri diritti.

Pride Month prodotti arcobaleno
Giugno è il mese del pride e moltissimi brand iniziano a produrre oggetti arcobaleno. Ma come fare a capire quando un’azienda fa seriamente e quando no? © Angela Compagnone/Unplash

L’anno dopo i moti di Stonewall il Gay liberation front organizzò il primo vero gay pride della storia per le strade di New York, al quale parteciparono tra le cinquemila e le diecimila persone. Oggi il pride month conta calendari fittissimi e manifestazioni in quasi tutto il mondo (i paesi in cui l’omosessualità è ancora un reato sono settantadue) e se viviamo in una società più inclusiva e dove i diritti della comunità lgbtqia+ sono più tutelati lo si deve anche a questo tipo di manifestazioni e al fatto che durante il mese del pride l’immaginario collettivo venga nutrito da bandiere arcobaleno.

La strada verso una parità vera di diritti è ancora lontana dall’essere raggiunta, ma nel frattempo è diventato molto appetibile per le aziende e i media accostarsi alla causa lgbtqia+ e imbastire iniziative, o più spesso vendere prodotti ad hoc, per celebrare il pride month. Abbiamo parlato di rainbow washing con Francesca Vecchioni, fondatrice e presidente dell’associazione Diversity, ong impegnata nel diffondere la cultura dell’inclusione produttrice dei Diversity media awards, che si occupa tra le altre cose di redigere indagini e fornire consulenze alle aziende.

Moti di Stonewall
La sfilata del gay pride a Londra il 6 luglio del 1996, con bandiere in ricordo dei moti di Stonewall © Getty Images

“Il fatto di sostenere o di mostrarsi in qualche modo positivi verso tematiche lgbtqia+ non può essere aprioristicamente considerato come negativo, perché se è vero che esiste il rainbow washing, è altrettanto vero che c’è un immaginario collettivo da dover rafforzare”, ci racconta Vecchioni. “Sono esistiti anni e anni di modalità di esclusione del tema, ora è un bene che non sia più un tabù per le aziende. D’altra parte i brand che in maniera coerente e autentica sostengono i valori lgbtqia+ non sono quelli che mettono la bandierina arcobaleno, ma quelli che basano sui valori dell’inclusività i loro processi interni e le loro policy”.

rainbow washing
La sfilata del gay pride di Amsterdam, nel 2018. Molte aziende fanno rainbow washing durante questo mese © Getty Images

Come è cambiato l’approccio delle aziende riguardo alle tematiche lgbtqia+ e al pride month?
Solo quindici anni fa le aziende che mettevano anche solo la bandiera arcobaleno erano da considerarsi molto coraggiose: ci voleva coraggio e chiarezza di intenti per produrre oggetti identificati come a sostegno della comunità lgbtqia+. Oggi è diventato quasi il contrario: si notano di più quelli che non lo fanno. Quello che però dobbiamo fare, come comunità, secondo me è uscire dalla dinamica del giusto e dello sbagliato, del bianco o nero: la situazione è molto più complessa di quanto non sembri.

Come si riconosce il rainbow washing?
Un’azienda per essere davvero coerente non può solo mettere una bandierina o tingere il proprio logo arcobaleno, ma deve avere un allineamento rispetto ai valori reali, a quelli che persegue e verso quelli su cui investe, sia internamente che esternamente. Se vogliamo davvero capire se un’azienda sta facendo sul serio o se la sua è solo una comunicazione fine a se stessa, dobbiamo andare a vedere le sue politiche interne, per esempio relativamente alle modalità con cui ricerca le persone e le assume. La domanda che dobbiamo porci per capire è: questa azienda è effettivamente coerente? Ha politiche aziendali che valorizzano i dipendenti in modo equo e abbattono le discriminazioni di accessibilità al mondo del lavoro? Questo brand mette una bandiera sul prodotto per venderne di più oppure spinge i diritti lgbtqia+ perché questo è legato ai suoi valori e alla sua brand awareness? Sta creando valore e rispetto per la comunità che sta rappresentando?

Come valutare quindi l’impegno di un’azienda?
Dobbiamo abituarci a spostare l’asticella un po’ più in là: oggi l’attivismo è intersezionale, quando tu metti la bandiera arcobaleno poi devi essere in grado di mostrarti inclusivo anche su altri fronti. La cartina tornasole non possono essere solo otto colori messi in fila: la valutazione qualitativa dipende anche dal comportamento verso altre tematiche, come la parità di genere e l’attenzione alla disabilità. Il disclaimer fondamentale è poi se un’azienda lo fa da anni e se, oltre alla vendita del prodotto, è interessata a promuovere tutta una serie di valori legati alle tematiche del rispetto e dei diritti. Avere un atteggiamento accusatorio però è controproducente, bisogna semmai accompagnare il percorso di crescita delle realtà che manifestano la volontà di sostenere i diritti lgbtqia+ e spingere le aziende a lavorare sull’inclusione a 360 gradi. La cosa più importante è sempre la coerenza.

Copenhagen Pride 2017 © Wilfred Gachau
Copenhagen Pride 2017 © Wilfred Gachau

Accostarsi in maniera vuota a battaglie come quelle portate avanti dalla comunità lgbtqia+ ha solo effetti negativi oppure per assurdo il rainbow washing  può comunque in qualche modo contribuire all’immaginario collettivo e quindi all’attenzione sui diritti?
Se, come accennavo prima, costruire l’immaginario collettivo è importante, la sovraesposizione non è tout court positiva, perché se tutti iniziano a mettere le bandiere arcobaleno si annulla l’importanza dell’evento: l’ipersensibilizzazione svuota un po’ il messaggio. La bandiera arcobaleno è un simbolo, e come tale è importante che venga utilizzato in maniera coerente e completa. Il maggior danno comunque arriva a quei brand che fanno rainbow washing puro: l’attenzione e la consapevolezza del pubblico oggi è molto alta e se si fanno le cose con poca sincerità poi si ha un ritorno negativo. Il pubblico con cui ti interfacci oggi, soprattutto se appartenente alla comunità lgbtqia+, ha una maturità tale che smaschera subito atteggiamenti poco trasparenti da parte dei brand o dei media. I brand non sono società no profit e devono vendere, ma poi sta a noi comprare o meno le cose proposte. Il coraggio non è mai negativo, ma deve essere un coraggio vero, accostarsi a una battaglia solo per vendere un prodotto non ha nessun senso.

Per quanto riguarda i media? Si mette il logo arcobaleno, ma poi si parla a sufficienza di diversità?
Diversity, che ogni anno organizza i Diversity media awards, produce annualmente dei report sulla rappresentazione della diversità nei media italiani. Per quanto riguarda il 2021 l’attenzione per temi che interessano almeno una delle 5 diversity (persone ed eventi pertinenti disabilità, età, generazioni, etnie, genere e identità di genere, orientamento sessuale e affettivo) ha inciso sulla copertura complessiva per il 23 per cento. In particolare nelle news italiane si è parlato di genere e identità di genere con un’incidenza del 7,5 per cento sull’agenda mediatica, dove la maggior parte delle notizie si è focalizzata sulle donne (39,1 per cento) e sulle relazioni di genere (32,0 per cento), mentre si è parlato di comunità lgbtqia+ per una copertura del 6,5 per cento. La maggior parte delle notizie su genere e identità di genere riportava fatti di criminalità (39,2 per cento) e questioni sociali (13,7 per cento).

Quando si è parlato di donne lo si è fatto in merito a “donne e politica” (2,3 per cento), “donne e sport “(2,1 per cento), “prime donne” (1,8 per cento), “libertà/diritti delle donne” (1,7 per cento) “donne e lavoro” (1,6 per cento) con picchi intorno all’8 marzo e al 25 novembre in occasione della Giornata Internazionale per i diritti della donna e la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La disabilità ha occupato appena l’1,2 per cento dell’agenda mediatica italiana e la diversità per orientamento sessuale e affettivo ancora meno: lo 0,8 per cento. Se prendiamo poi uno specifico argomento come il ddl Zan si nota come solo lo 0,8 per cento delle news abbia menzionato la misoginia e l’8,4 per cento l’abilismo, mentre il 79,8 per cento l’omofobia o l’omobitransfobia, evidenziando come la mediatizzazione del dibattito politico sul ddl Zan lo abbia ridotto a un decreto pertinente quasi esclusivamente alla comunità lgbtqia+.

Pride month
Pride make up a una manifestazione a Orlando, in Florida © Getty Images

Lla strada per una parità e un’inclusività vera e reale è ancora lontana dall’essere raggiunta, ma questo mese in particolare è un’occasione per tutti per dare il proprio contributo, grande o piccolo che sia, per cambiare le cose per il meglio. Scendere in piazza a fianco di una comunità che reclama i propri diritti costa poco, ma significa molto.

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