Una nuova legge punisce con il carcere chi prova a cambiare l’identità di genere o l’orientamento sessuale di una persona con le terapie di conversione.
Le terapie di conversione, cioè per le pratiche volte a “guarire” una persona lgbtqia+, sono un reato anche in Nuova Zelanda. Questa promessa era uno dei capisaldi della campagna elettorale della prima ministra Jacinda Ardern, rieletta nel 2020 per il suo secondo mandato, e ora è diventata legge. La proposta era stata presentata nel 2021, ha ricevuto 107mila commenti da parte dei cittadini (un record) e martedì 15 febbraio è stata approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento. 112 i voti a favore, soltanto 8 i contrari.
Cosa prevede la legge neozelandese sulle terapie di conversione
“È un grande giorno per le comunità arcobaleno della Nuova Zelanda”, ha dichiarato il ministro della Giustizia Kris Faafoi. La legge stabilisce innanzitutto il confine tra ciò che può essere inquadrato come terapia di conversione e ciò che non lo è. Ciascuno resta libero di esprimere opinioni, valori o credenze religiose, purché ciò non sia finalizzato a cambiare l’orientamento sessuale di una persona (cioè la sua attrazione fisica o sentimentale verso il proprio o l’altro sesso), la sua identità di genere (cioè l’intima percezione che ha di sé come maschio o femmina) o la sua espressione di genere (cioè il modo in cui si presenta alla società).
Chi pratica terapie di conversione su giovani al di sotto dei 18 anni, o su adulti con ridotta capacità decisionale, rischia fino a tre anni di carcere. La pena sale fino a cinque anni quando esse comportano gravi danni per la persona coinvolta, indipendentemente dalla sua età.
#BREAKING: Our Conversion Practices Prohibition Bill has PASSED 🏳️🌈
The passing of this Bill means that we can better protect our Rainbow friends and family from harmful conversion practices, as we lay the foundations for a better future together. pic.twitter.com/5fe9YI0ord
Le “cure” per le persone lgbtqia+, infondate e nocive
Le terapie di conversione partono dal presupposto per cui l’omosessualità e la transessualità siano malattie. Nella storia sono stati sperimentati diversi metodi per “curarle”: dalla psicoterapia all’ipnosi, dalla somministrazione di farmaci all’elettroshock, arrivando addirittura all’esorcismo e alle violenze sessuali sulle lesbiche.
Uno studio voluto dalle Nazioni Unite mette nero su bianco che tali tecniche non hanno alcun fondamento scientifico. Il loro unico risultato è un pesante strascico di “dolore e sofferenza a livello fisico e psicologico”. Un dolore che si può tradurre in depressione, isolamento sociale, crollo dell’autostima, autolesionismo, sindrome da stress post-traumatico e intenzioni suicide. Proprio la Nuova Zelanda, sottolinea il Guardian, è il paese dell’Ocse con il tasso di suicidi più alto; da una ricerca condotta nel 2019 emerge che una percentuale impressionante di persone transgender e non binarie, addirittura il 79 per cento, ha avuto pensieri suicidi in passato.
Sono sempre di più i paesi che vietano le terapie di conversione
Negli ultimi anni diversi stati hanno deciso di mettere la parola fine su queste pratiche infondate e nocive. Ad aprire la strada è stata l’isola di Malta, nel 2016, con una legge che prevede pene fino a 5mila euro o sei mesi di carcere, inasprite i colpevoli sono medici o altri professionisti. Negli Stati Uniti, si legge nel sito della campagna Born perfect, venti stati federali hanno approvato normative ad hoc. A gennaio 2022 è stato il turno del Canada e della Francia. Anche India, Ecuador e Germania prevedono simili misure a tutela delle persone lgbtiqia+.
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