L’amministrazione Usa ha sospeso le domande per l’immigrazione delle persone provenienti da 19 paesi. Nel frattempo vanno avanti le retate nelle città.
Da due giorni si combatte di nuovo in Siria. Manovre militari di Russia, Turchia, Stati Uniti, Israele e curdi. Corsa contro il tempo per salvare la pace.
La tregua raggiunta in Siria alla fine del 2016 – già parziale e precaria – rischia di diventare presto un ricordo. Da due giorni infatti si combatte nuovamente nei sobborghi di Damasco: i ribelli e il gruppo jihadista Fronte Fateh al-Cham hanno attaccato una prima volta nella giornata di domenica 19 marzo, secondo quanto riferito dall’Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo. Il tutto mentre a Ginevra i rappresentanti del governo di Bashar al-Assad e dell’opposizione armata si ritrovano ancora seduti attorno al tavolo dei negoziati “di pace”.
I combattimenti, secondo quanto riferito dall’agenzia Afp, proseguono ininterrottamente e si concentrano soprattutto ad una decina di chilometri dal centro della capitale siriana. L’aviazione ha risposto con dei raid aerei che hanno preso di mira alcune postazioni dei ribelli, mentre questi ultimi hanno risposto con un fitto lancio di razzi sui quartieri Abbassides e Tijara, nella porzione orientale della città.
La notizia risulta particolarmente inquietante, soprattutto se si tiene conto del fatto che, finora, Damasco era stata relativamente risparmiata da un conflitto che, in tutta la Siria, ha provocato 321mila morti e quasi cinque milioni di profughi in sei anni. Secondo quanto riferito dai media internazionali, i ribelli sarebbero presenti in cinque quartieri.
Nella mattinata di oggi, martedì 21 marzo, alle 5.30 ora locale, la popolazione è stata svegliata da una potente esplosione, seguita da aspri combattimenti. L’agenzia di stampa ufficiale di Assad ha spiegato che “l’esercito fronteggia in questo momento i tentativi di infiltrazione di gruppi terroristi, che sono stati accerchiati”. Intanto, però, il bilancio è già particolarmente pesante in termini di vite umane: si parla di 72 morti solamente tra domenica e lunedì, 38 tra i soldati dell’esercito regolare, 34 tra gli insorti. Per questo l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura, ha deciso di recarsi d’urgenza a Mosca, per incontrare il ministro degli Esteri Sergei Lavrov; quindi volerà ad Ankara per negoziare anche con la Turchia.
Tra quest’ultima e Mosca, infatti, la tensione sul teatro di guerra siriano è salita fortemente nelle ultime ore. Lunedì 20 marzo la Russia ha richiamato all’ordine il governo di Ankara, e per far comprendere la propria fermezza ha inviato truppe e blindati nel nord della Siria. Obiettivo ufficiale: vigilare sul rispetto del cessate il fuoco, ma la regione è controllata dalle Unità di protezione del popolo (Ypg), l’esercito popolare dei curdi. Ed è probabile che i militari turchi stessero manovrando nell’area con l’obiettivo di attaccare i nemici giurati di Erdogan. La presenza dell’esercito russo bloccherà evidentemente l’avanzata delle truppe di Ankara verso l’Ypg, ma la situazione appare di certo ingarbugliata.
Clashes reported in eastern Damascus after rebel groups launch surprise attack on regime forces, state media says. https://t.co/gw3U6PvvDO pic.twitter.com/c8uxAZQzlz
— CNN Breaking News (@cnnbrk) 20 marzo 2017
Il quotidiano francese Le Monde sottolinea il fatto che i soldati di Putin “sono a poca distanza dalle forze speciali americane” e che anche queste ultime spalleggiano i curdi nella lotta contro l’Isis (che ancora controllano la città di Racca, benché accerchiata). Inoltre, ad aumentare la tensione è arrivata anche la crisi diplomatica tra Russia e Israele: l’ambasciatore della nazione braica a Mosca è stato convocato da Lavrov. Il ministro russo ha chiesto conto di un bombardamento aereo effettuato contro un convoglio di armi sofisticate, destinate agli Hezbollah libanesi (alleati di Damasco) nei pressi di Palmira. Per Assad si è trattato di “un attacco contro la Siria”, e la risposta è stato un lancio di missili antiaerei contro alcuni caccia israeliani. La pace in Siria, insomma, appare sempre più appesa a un filo.
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