Sono passati tre anni dalla morte di 13 detenuti durante le rivolte in decine di carceri italiane. E molti elementi sui decessi non sono ancora stati chiariti.
Nel marzo 2020 il dilagare della Covid-19 nelle carceri italiane e la sospensione dei colloqui ha portato a violente rivolte.
Nel giro di poche ore sono morti nove detenuti del carcere di Modena, tre del carcere di Rieti e uno di quello di Bologna.
La versione ufficiale è che i detenuti sono morti per overdose dopo l’assalto all’infermeria. Ma molti punti ancora non tornano.
L’8 marzo 2020 le carceri italiane vengono investite da un effetto domino di rivolte dei detenuti. A Modena, Rieti, Bologna e in decine di altri istituti si scatena l’inferno, in conseguenza della paura per i primi contagi di Covid-19 nelle celle sovraffollate, ma anche per la sospensione dei colloqui e delle altre poche attività disponibili per i detenuti. Le rivolte carcerarie non sono un evento raro, ma questa volta è stato diverso. Muiono nove detenuti dell’istituto di Modena, un altro perde la vita a Bologna, tre altri ancora a Rieti. tredici morti totali, la peggiore strage carceraria nella storia Repubblicana Italiana, ma anche una delle peggiori in tutta Europa.
Sono passati tre anni da quella tragedia. Un periodo lungo, ma non abbastanza per restituire verità e giustizia su quelle morti. La versione data per buona oggi è la stessa offerta a pochi giorni dalle rivolte: i detenuti sono morti per overdose da metadone, dopo che nel caos del momento avevano assaltato l’infermeria e depredato gli armadietti dei farmaci. Eppure con il passare del tempo sono emersi dalle diverse carceri coinvolte sempre più elementi che mettono in discussione questa ricostruzione dei fatti. Tra presunte omissioni nei soccorsi, violenze, mancate cautele e molto altro, le domande sulla peggiore strage carceraria italiana restano ancora senza risposta.
Nel marzo 2020 nelle carceri italiane ci sono oltre 60mila detenuti. Questo nonostante una capienza ufficiale di 50mila, poi nel concreto ancora più bassa visti i diversi reparti in ristrutturazione.
Quello del sovraffollamento carcerario è un problema che l’Italia si porta avanti da sempre. Nel 2013 è intervenuta perfino la Corte europea dei diritti umani (Cedu), condannando l’Italia nella sentenza Torreggiani per “trattamenti inumani e degradanti”, dando ragione a sette detenuti che avevano presentato ricorso perché reclusi in meno di quattro metri quadrati a testa in cella. Negli anni successivi arrivano altre condanne, mentre alcuni detenuti fanno causa allo stato e ottengono risarcimenti e sconti di pena per questo motivo. Ma il sovraffollamento rimane nella sua versione più estrema, con punte del 200 per cento in alcuni istituti. Quando a inizio marzo 2020 l’Italia è investita dalla pandemia Covid-19, con i bollettini sui morti in impennata e il distanziamento sociale descritto come una delle poche armi di difesa a disposizione, nelle sovraffollate carceri italiane scoppia il panico.
A peggiorare la situazione è l’imposizione del lockdown a livello nazionale, che ha i suoi effetti anche sulle carceri. Per evitare il via vai dagli istituti, sono sospesi i colloqui con i familiari, l’unico momento di leggerezza durante la prigionia. Stessa sorte per gran parte delle attività educative e ludiche interne, così come sono per i permessi-premio e il regime di semilibertà. I detenuti, che già vivevano quotidianamente in quella condizione di lockdown che è la pena, vedono così restringersi ulteriormente le loro risicate libertà. Tutti e senza distinzioni si ritrovano in una sorta di 41bis, appiccicati l’uno all’altro e senza che vengano distribuiti dispositivi di protezione individuale come le mascherine, se non in rari casi.
Quando il 7 marzo 2020 nel carcere Sant’Anna di Modena si diffonde la notizia di un detenuto positivo al coronavirus, la tensione sale. Nell’istituto emiliano si trovano 546 prigionieri a fronte di 369 posti e la consapevolezza che il virus sia riuscito a entrare e che non ci sia modo di creare un distanziamento sociale a causa del sovraffollamento crea il panico. La voce si allarga subito agli altri istituti penitenziari italiani ed esplode il caos.
Le rivolte nelle carceri
La prima rivolta avviene la sera del 7 marzo nel carcere di Salerno, ma ha durata breve e viene sedata nel giro di poco tempo. L’inferno vero e proprio esplode verso ora di pranzo del giorno successivo, in particolare a Modena.
Qui un gruppo di un centinaio di detenuti inizia a spaccare tutto quello che gli capita sotto mano. Riescono a munirsi di estintori, sbarre, oggetti di metallo, pietre e molte altre armi di fortuna e costringono gli agenti di polizia ad arretrare, mentre alcune sezioni del carcere vengono date alle fiamme. L’obiettivo è evadere e alcuni riescono a scavalcare i primi muri di cinta, per poi venire bloccati. All’interno dell’istituto viene assaltata anche l’infermeria del carcere, dove vengono depredati metadone e psicofarmaci. Più o meno in contemporanea nuove rivolte scoppiano negli istituti penitenziari di Frosinone e Napoli Poggioreale, mentre dal tardo pomeriggio e nei giorni successivi si allargano a decine di altri istituti. Alla fine, secondo la relazione finale della commissione ispettiva del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) presieduta dall’ex procuratore Sergio Lari, saranno57 le carceri coinvolte nei disordini, per un totale di 7.517 detenuti partecipanti e 9 milioni di euro di danni.
Nella maggior parte degli istituti si ripete il copione di Modena, tra spazi dati alle fiamme, barricate, assalti all’infermeria e sequestri di personale penitenziario. In altri casi come a Foggiasi va oltre, con l’evasione di 72 detenuti, alcuni poi rientrati in carcere volontariamente a rivolta conclusa, altri catturati dalle forze dell’ordine. Nel corso e nelle ore successive alle rivolte migliaia di detenuti sono poi trasferiti dalle carceri in cui si trovavano ad altri istituti, anche a centinaia di chilometri di distanza, con l’obiettivo di allentare la tensione. Ma in alcune occasioni le rivolte scoppiano anche nelle carceri di destinazione, come a Rieti, dove la miccia esplode a ora di pranzo del 9 marzo, una volta già arrivati i detenuti trasferiti dal carcere di Frosinone, a sua volta interessato da una rivolta 24 ore prima.
La strage dei 13 detenuti
Hafedh Chouchane, tunisino 36enne, è il primo detenuto a essere trovato morto l’8 marzo nel carcere di Modena. È ora di cena circa, ma le versioni sul luogo e sull’orario del suo ritrovamento non coincidono.
Con il passare delle ore vengono trovati morti nello stesso istituto, durante i trasferimenti da Modena o negli istituti di destinazione, altri otto detenuti: Slim Agrebi, Erial Ahmadi, Ali Bakili, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Lofti Ben Mesmia, Salvatore Piscitelli, Abdellha Roua. La strage non è finita. La mattina del 10 marzo, nel giorno successivo alla rivolta, vengono trovati morti nel carcere di Rieti Carlo Samir Perez Alvarez, Marco Boattini e Ante Culic. A Bologna muore invece un altro detenuto, Haitem Kedri.
13 morti, la peggiore strage carceraria della storia Repubblicana Italiana. Tutto nel giro di poche ore e, secondo la versione sin dall’inizio data dalle istituzioni, ribadita dalle autopsie effettuate e confermata dalla relazione della commissione Lari, la causa è sempre la stessa: overdose. Le vittime erano nella gran parte dei casi tossicodipendenti e nel caos della rivolta e dell’assalto alle infermerie si sono impossessati di grossi quantitativi di psicofarmaci e metadone. In alcuni casi la causa della morte è il metadone stesso, in altri il mix letale di sostanze. E i tempi dei decessi sono variabili: qualcuno muore nel giro di poco tempo, per altri passano giorni.
Le ombre sulle cause
Sono tanti gli interrogativi che a tre anni da quella strage rimangono in piedi. Il primo dei temi non chiarito fino in fondo è quello relativo all’accesso all’infermeria.
“Lo hanno trascinato fino alla cella. Lo hanno buttato dentro come un sacco di patate… Lo hanno picchiato di brutto. A Modena era troppo debole. Non è riuscito a resistere a quelle botte”.
– Lettera di cinque detenuti sulla morte di Salvatore Piscitelli
Nel caso di Modena la procura dice che il metadone e gli altri farmaci si trovavanosotto chiave, ma questa versione non collima con la testimonianza rilasciata dalle due infermiere che si trovavano in quello spazio allo scoppio della rivolta. A Rieti alcune testimonianze dei detenuti rivelano che la chiave dell’armadietto con i medicinali era incustodita nel gabbiotto delle guardie, che intanto erano scappate nel caos della rivolta. Questo ha facilitato l’accesso dei detenuti ai medicinali e in effetti anche la relazione della commissione Lari ammette che nel carcere laziale ambulatorio e farmacia erano troppo alla portata dei detenuti.
"Qualsiasi cosa sia successo a mio figlio la considero responsabilità dello Stato Italiano"
Testimonianze e documenti inediti sui detenuti morti nella rivolta del carcere di Modena nel 2020. "Anatomia di una rivolta", stasera alle 21.30 e domani alle 18.30 #Rainews24#Spotlightpic.twitter.com/wFv87O8QUY
Altre cose non tornano sotto un altro aspetto: il fatto che i detenuti abbiano continuato ad assumere sostanze per ore, anche a rivolta conclusa. Sotto al materasso di alcuni dei morti sono state in effetti trovate pasticche e siringhe, diverse testimonianze di detenuti e personale confermano che non sono state fatte perquisizioni nelle celle a rivolta terminata e questo non ha prevenuto le overdose e i decessi del giorno successivo. “Dovevano mandarci il personale, darci modo di fare perquisizioni cella per cella, metterci in condizione di poter lavorare bene. Non è stato così”, ha spiegato un agente di Rieti.
Altri detenuti avrebbero continuato a drogarsi durante i trasferimenti in pullman verso altri istituti, dal momento che prima della partenza, secondo le testimonianze, non avrebbero ricevuto né perquisizioni, né visite mediche (che sono obbligatorie). Chi era già in condizioni precarie per l’assunzione di droga potrebbe essere morto proprio per lo stress psicofisico di un viaggio lungo centinaia di chilometri in assenza di supporto sanitario.
Le presunte violenze
C’è un altro aspetto sulle rivolte carcerarie del 2020 su cui con il passare del tempo sono emersi nuovi dettagli. Quello delle presunte violenze a danno dei detenuti.
Per quanto le autopsie confermino l’overdose come causa del decesso, molti corpi presentano segni di violenza più o meno marcati. Bilel Methani, 37 anni, è uno dei primi a essere trovato morto a Modena l’8 marzo sera. Presenta ematomi, ecchimosi ed escoriazioni al naso, alla bocca e in altre parti del corpo. Slim Agrebi, 40enne, viene constatato morto verso le 22:00 e non vengono appuntate lesioni sul suo corpo. Solo in un esame successivo vengono rilevate escoriazioni ed ecchimosi. A Ghazi Hadidi, 36 anni, mancano invece due denti. Anche chi è sopravvissuto presenta segni di violenze: è il caso di un detenuto di Rieti, finito in coma durante la rivolta e risvegliatosi mesi dopo con un fascicolo sanitario che parla di fratture costali multiple e punti di sutura in testa. E poi c’è la storia di Salvatore Piscitelli, 40 anni, detenuto di Modena morto dopo il trasferimento ad Ascoli.
Nel carcere marchigiano arriva verso ora di pranzo del 9 marzo, giorno successivo alla rivolta di Modena. I medici scrivono che è in buona salute, non c’è niente di particolare da rilevare, eppure dopo poche ore muore. Un primo fascicolo dice che spira in cella, un altro in ospedale: c’è molta confusione. Secondo le testimonianze di alcuni detenuti che hanno fatto il viaggio con lui da Modena ad Ascoli, avrebbe bevuto metadone nel carcere emiliano e in pullman avrebbe assunto uno stato di torpore. Ma soprattutto, sarebbe stato massacrato di botte dagli agenti in più occasioni. Ad Ascoli “emetteva dei versi lancinanti, qualcuno sentì un agente dire ‘fatelo morire’”, scrivono cinque detenuti in una lettera, firmandosi con nome e cognome, una cosa molto rara nelle carceri visto che denunciare pone sempre il rischio di punizioni e vendette. “Lo hanno trascinato fino alla cella. Lo hanno buttato dentro come un sacco di patate… Lo hanno picchiato di brutto. A Modena era troppo debole. Non è riuscito a resistere a quelle botte”.
La ricerca della verità
La peggiore strage carceraria nella storia repubblicana italiana è rimasta per lungo tempo nel silenzio. All’inizio non sono usciti nemmeno i nomi delle vittime, ci sono familiari che hanno impiegato settimane per sapere che i loro cari non c’erano più. Le istituzioni hanno voltato lo sguardo dall’altra parte, l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non ha commentato la tragedia per giorni, poi lo ha fatto puntando il dito contro “gli atti criminali” dei detenuti e liquidando le morti come “perlopiù causate da abusi di sostanze”.
Qualcosa è cambiato nel giugno 2021, a quasi un anno e mezzo di distanza dalla strage. Il quotidiano Domaniha diffuso i video dei pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, uno di quelli interessati dalle rivolte del 2020. E di fronte a tali immagini, molte delle testimonianze emerse sulla strage occorsa tra Modena, Rieti e Bologna hanno assunto più rilevanza tanto nell’opinione pubblica, quanto nei tribunali. In effetti una parte delle ombre relative ai fatti di marzo 2020 e delle presunte violenze era quella delle spedizioni punitive che sarebbero avvenute in varie carceri nei momenti successivi alla rivolta. A Rieti, per esempio, numerosi detenuti hanno raccontato che per giorni sono stati costretti a percorrere corridoi umani di agenti in tenuta antisommossa che li picchiavano con pugni, calci e manganellate. Altre testimonianze sulle azioni punitive di queste “squadrette” di poliziotti sono arrivate anche da altri istituti. I video di Santa Maria Capua Vetere, perfettamente corrispondenti a quei racconti, hanno dato un’immagine concreta a tutte queste parole, come a raccontare un metodo di repressione diffuso.
Lo scorso anno, proprio in questi giorni, molte carceri italiane erano state scosse dalle rivolte dei detenuti, in un…
Nel caso dell’istituto campano, nel novembre 2022 è partito il processo a carico di 105 imputati accusati di violenze e torture. A tre anni di distanza dalla peggiore strage carceraria italiana, è l’unico processo in corso che prova a far luce su quanto successo, per quanto sia relativo a un carcere dove non ci sono stati decessi. I restanti processi in tutta Italia sono a carico dei detenuti, imputati per la devastazione delle carceri durante le rivolte. Per il resto sui tredici morti si è giunti ad archiviazioni o richieste di archiviazione. Ma negli ultimi mesi un piccolo, nuovo squarcio, potrebbe essersi aperto a Modena: da un fascicolo per tortura a carico di ignoti si è passati a un’indagine per questa fattispecie di reato contro cinque agenti per le presunte violenze sui detenuti durante e dopo la rivolta. Sullo sfondo in Italia si moltiplicano le condanne, i processi e le indagini per tortura a carico di agenti penitenziari per episodi precedenti o esterni alle rivolte del 2020, come a San Gimignano, a Ivrea, a Torino e molti altri.
“Da una parte le rivolte del 2020 hanno portato a una maggiore attenzione da parte degli apparati dello Stato sulla questione carceraria, penso al più grande processo per tortura mai avuto in Europa, quello in corso per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, che ci ha detto che la legge che ha introdotto il reato di tortura nel 2017 funziona in qualche modo”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Associazione Antigone. “Dall’altra però tutto questo si è tradotto in una consapevolezza istituzionale accresciuta sul carcere? Purtroppo no”.
“Se da un lato è vero che non si può parlare di silenzio assoluto delle istituzioni sulle rivolte del 2020, dall’altro è evidente un contesto di sabbie mobili che si sono portate via ogni possibilità di consapevolezza al riguardo”.
– Susanna Marietti, coordinatrice nazionale Associazione Antigone.
In effetti molte delle lezioni date dal periodo della pandemia sono rimaste lettera morta, per esempio quelle sul tema del sovraffollamento. “La pandemia ci ha insegnato che in due mesi i detenuti sono scesi di 8mila unità: questo perchè abbiamo messo fuori pericolosissimi criminali o perche due giorni prima della pandemia, così come in tutti gli anni passati, usavamo il sistema penale e penitenziario in maniera troppo e inutilmente ampia?”, sottolinea Marietti. Stesso discorso per le forme di comunicazione e informazione per i detenuti, la cui chiusura dal mondo esterno è stata proprio tra le cause delle rivolte. “Le nuove tecnologie sono entrate in carcere da un momento all’altro e quando sembrava una cosa impossibile: ma ora sono lì per rimanere?”, si interroga Marietti. “La commissione Ruotolo nel dicembre 2020 aveva redatto un’ottima relazione con l’obiettivo di innovare il sistema penitenziario, scrivere un nuovo regolamento in cui ci sarebbero stati i tanti apprendimenti avuti dalla pandemia e sbattutici in faccia da quelle decine di rivolte. Ma è stata tutta esperienza persa, il governo è cambiato e il lavoro è andato buttato”, continua Marietti. “Se da un lato è vero che non si può parlare di silenzio assoluto delle istituzioni sulle rivolte del 2020, dall’altro è evidente un contesto di sabbie mobili che si sono portate via ogni possibilità di consapevolezza al riguardo”.
Sulla peggiore strage carceraria della storia italiana tre anni non sono bastati per sciogliere tutti i dubbi messi in fila dalla tenacia dei familiari delle vittime e da associazioni della società civile. Allo stesso tempo, tre anni non sono bastati perché le istituzioni imparassero le lezioni collegate a quelle morti e si adoperassero per fare in modo che qualcosa di simile non possa mai più accadere. I pochi processi e le poche indagini in corso su quelle rivolte potrebbero però presto, in base al loro esito, aprire uno squarcio in questa situazione di prevalente passività. 13 morti nel giro di poche ore meritano molta più attenzione.
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