Il caso delle torture nel carcere di San Gimignano

L’11 ottobre 2018 nel carcere Ranza ci sarebbero state violenze terrificanti nei confronti di un detenuto. Ora cinque agenti verranno processati per tortura.

“Infami, pezzi di merda, vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano!”. Mentre, secondo l’accusa, riempivano di botte un detenuto tunisino, gli agenti penitenziari del carcere Ranza si sarebbero rivolti in questo modo agli altri condannati che assistevano alla scena da dietro le sbarre. Era l’11 ottobre del 2018 e i racconti usciti dalla struttura riguardo a quello che sarebbe avvenuto quel maledetto pomeriggio fanno rabbrividire. Nel 2021 cinque agenti di polizia penitenziaria, oltre a tre ispettori e due assistenti, dovranno affrontare un processo con l’accusa di tortura. È la prima volta in Italia che questo reato viene contestato a pubblici ufficiali, dopo la sua introduzione nell’ordinamento italiano del 2017

Cos’è successo a San Gimignano

Alle 15:20 dell’11 ottobre 2018 in un’ala del carcere Ranza c’è parecchio movimento. Un folto gruppo di agenti, con al seguito alcuni ispettori, deve trasferire un detenuto tunisino di 31 anni in un’altra cella. Il motivo è che ha causato danni a quella in cui si trovava, il soggetto ha problemi psichici ed è definito dai compagni come una persona che non ha mai fatto male agli altri, semmai solo a se stesso. Dal racconto di uno dei detenuti che assistono alla scena, la situazione però sfugge subito di mano senza motivi apparenti.

“Ci hanno fatto assistere a un vero e proprio pestaggio”, racconta in una lettera, “il detenuto veniva spostato da un’estremità dalla sezione all’altra a calci e pugni, cioè intendo che non è che hanno provato magari con un piccolo atto di forza magari con qualche spintone visto che il detenuto psicologicamente e fisicamente non stava affatto bene, peserà intorno ai 45 chilogrammi”. In molti gridano contro gli agenti, minacciano di denunciare. Dichiarano di aver ricevuto violenza in risposta. Nei mesi successivi le associazioni per i diritti dei detenuti raccolgono prove e testimonianze su quanto avvenuto in quelle ore, anche attraverso l’accesso alle telecamere di videosorveglianza, alle intercettazioni e ai referti medici di alcuni detenuti. L’accusa delinea così un quadro terrificante, fatto di violenza fisica, psichica, ingiuria e umiliazione

Il carcere di San Gimignano, dove sarebbero avvenute le tortur
Il carcere di San Gimignano, dove sarebbero avvenute le torture © Google maps

Il detenuto tunisino sarebbe stato preso di sorpresa mentre si avviava alle docce e scaraventato per terra con spintoni e pugni. Lo avrebbero fatto rialzare perchè camminasse, per poi sbatterlo nuovamente e ripetutamente sul pavimento. Il detenuto sarebbe anche stato immobilizzato a faccia in giù, mentre alcuni agenti gli montavano addosso con il ginocchio sul collo, una posizione divenuta tristemente nota a Minneapolis con George Floyd. A quel punto sarebbe stato trascinato per il corridoio, dopo averlo spogliato, di tanto in tanto preso al collo e colpito con pugni e schiaffi, fino all’ingresso nella nuova cella, dove le violenze nei suoi confronti sarebbero andate avanti e dove sarebbe poi stato lasciato nudo, senza materasso e senza coperte fino al giorno successivo. Mentre avveniva tutto questo, gli agenti avrebbero rivolto insulti razzisti nei suoi confronti e minacce nei confronti degli altri detenuti: “Perché non te ne torni al tuo paese”, “Non ti muovere o ti strangolo”, “Ti ammazzo”, fino a “Vi facciamo vedere chi comanda a San Gimignano”.

La prima volta del reato di tortura

L’inchiesta coordinata dalla pubblico ministero (pm) Valentina Magnini ha concluso che nei confronti del detenuto ci sarebbe stato un “trattamento inumano e degradante”. Per questo motivo cinque agenti penitenziari sono stati rinviati a giudizio dal giudice dell’udienza prelimiare (gup) Roberta Malavasi per lesioni aggravate, falso ideologico, minacce aggravate, abuso di potere e tortura. Intanto, un medico del carcere che aveva richiesto il rito abbreviato è stato condannato a quattro mesi per non aver visitato il detenuto una volta che, dolorante e con segni di violenza, si trovava nella nuova cella.

L’Italia per molto tempo non ha avuto una legge sulla tortura, nonostante avesse aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro questo tipo di reato. Nel 2017 c’è stata la svolta, con una legge definita da molti insufficiente ma che ha quanto meno riempito un vuoto che faceva parecchio rumore. Le disposizioni in vigore da ormai tre anni prevedono per i responsabili di tortura dai quattro ai dieci anni di carcere, che salgono a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. 

La prima condanna definitiva per questo tipo di reato si è avuta nel 2019 a Varese, altre sono state comminate nei mesi scorsi. Fino a ora però nessun esponente delle forze dell’ordine era stato mai neanche indagato per aver commesso violazioni del codice penale di questo tipo. Il rinvio a giudizio del caso di San Gimignano apre allora un capitolo importante sotto questo punto di vista, 

La punta di un iceberg

“Non luogo a procedere, eccessi di mezzi di coercizione. Queste sono formule ricorrenti quando si tratta di condotte portate avanti dalle forze di polizia, la storia d’Italia è costellata di episodi analoghi. Nelle carceri è difficile farle emergere, non sempre c’è la disponibilità degli altri detenuti a testimoniare quello che avviene, spesso gli abusi si verificano lontano dallo sguardo degli altri”, sottolinea Sandra Berardi, la presidente di Yairaiha, associazione per i diritti dei detenuti che ha seguito direttamente il caso dei presunti abusi di San Gimignano. Un caso a suo modo fortunato, perché avvenuto nella sezione dell’isolamento e dunque dotata di telecamere con cui è stato possibile raccogliere il materiale. “San Gimignano non è un posto più problematico di altri, la denuncia è venuta fuori solo per delle congiunture specifiche di quel periodo e di quel luogo”, sottolinea Berardi. “Sono situazioni che vengono solitamente vissute nel silenzio per paura di ritorsioni, non è facile per un detenuto denunciare un abuso, riuscire a dimostrarlo e uscirne indenne”.

La legge sulla tortura del 2017 ha cambiato il quadro, perché ha fornito un nuovo strumento giuridico con cui condannare i trattamenti degradanti portati avanti nei luoghi di coercizione. Per troppi anni l’Italia ha assistito a condotte da parte delle forze dell’ordine che nel migliore dei casi si sono tradotte in pene irrisorie, nel peggiore nel nulla assoluto, proprio per l’assenza di un reticolo legislativo adeguato. Un caso su tutti è quello dei fatti del G8 di Genova, con la macelleria messicana alla scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto, che hanno portato perfino la Corte europea dei diritti umani a prendere posizione: “Fu tortura”, il verdetto.

Ma di episodi di tortura e situazioni sospette ce ne sono state molte altre in questi anni, dai più noti pubblicamente come quello di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, a tanti altri casi rimasti rimasti più nascosti. Per esempio il decesso di 14 detenuti durante le rivolte carcerarie di marzo scorso, ufficialmente per abuso di metadone, ma su cui non è mai stata fatta chiarezza. E poi la repressione in diversi istituti penitenziari, come quello di Foggia, dove testimonianze parlano di detenuti presi a manganellate, calci e pugni, portati forzosamente in altri centri in piena notte in mutande e messi in isolamento per mesi senza fornire loro vestiti né i propri beni personali. E poi denunce scomparse, lettere non spedite e via così, in una lista infinita di comportamenti oscuri.

“Le violenze ci sono sempre state e continuano a esserci. La situazione non è cambiata con l’introduzione della nuova legge, che è un po’ monca e lascia ampi margini d’azione a un determinato modus operandi. La sentenza sul caso di San Gimignano potrebbe essere importante e costituire un precedente, ma bisogna prima arrivarci”, conclude Berardi. “Serve che le normative vengano accompagnate da altre trasformazioni, per esempio andrebbe introdotta la questione dei numeri identificativi delle forze dell’ordine, ma anche quella di un’installazione massiva di telecamere collegate con l’ufficio dei garanti”.

A San Gimignano si è arrivati al processo per tortura nei confronti di pubblici ufficiali grazie soprattutto alla disponibilità delle immagini, un elemento non scontato nel panorama penitenziario italiano. L’installazione di telecamere anche altrove, in tutte le sezioni, potrebbe dare una svolta significativa nella tutela dei diritti dei detenuti, accompagnando una legge sulla tortura che da sola non può funzionare.

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