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Un ambizioso progetto di riforestazione in Tanzania
In Tanzania l’Udzungwa corridor limited ha l’obiettivo di catturare CO2, restaurare l’ecosistema e supportare le popolazioni locali.
Riforestare è sognare. Vuol dire sedersi sotto al sole cocente, tra specie invasive ed urticanti, e sognare quello che sarà tra 30, 50, 100 anni. Un intero ecosistema che, pezzo per pezzo, si ricostruisce.
Durante il giorno le cicale sprigionano il rumore di una cascata, ma una volta sceso il sole si spengono come piccoli apparecchi fotovoltaici. Quel rumore assordante lascia il posto al silenzio della notte, pronta a divorare ogni cosa in una pupilla senza fondo. Nemmeno il luccichio delle stelle riesce a filtrare tra le fronde aggrovigliate e impenetrabili della foresta. Un’energia primordiale pullula nel buio: è l’anima della giungla. In questi luoghi l’uomo viene fiutato a chilometri di distanza da qualche leopardo, o leone, o elefante; qui, gli animali, sanno.
Il progetto di riforestazione Udzungwa corridor limited
Siamo in Tanzania, nella remota zona centromeridionale dei monti dell’Arco orientale, dove è attualmente in atto un ambizioso progetto di riforestazione. Collocato tra il Parco nazionale dei monti Udzungwa e la Riserva forestale di Udzungwa Scarp, il progetto prende il nome di Udzungwa corridor limited. Con un’area di 75 chilometri quadrati (più grande dell’intero distretto di Manhattan), il progetto ha tre obiettivi: rimuovere 5,5 milioni di tonnellate di CO2 dall’atmosfera, restaurare l’ecosistema animale e vegetale in uno dei trentasei hotspot di biodiversità del mondo (i luoghi della terra più ricchi da un punto di vista biologico: per essere definita hotspot una regione deve ospitare almeno 1.500 specie di piante endemiche) e di risollevare più di 5.500 persone dalla stato di povertà.
Tutto questo avviene secondo un’etica rigida, attraverso la piantumazione di specie endemiche o a ristretto areale di distribuzione come Allanblackia stuhlmannii, Cephalosphaera usamabrensis e Cola scheffleri, e, per la prima volta, su larga scala. Il progetto, promosso e supportato dall’African rainforest conservancy e dal Tanzania forest conservation group, è iniziato ad agosto 2021 e avrà una durata complessiva di trent’anni. E dal suo principio ci sta lavorando un botanico italiano, Andrea Bianchi.
Perché riforestare
Riforestare significa immagazzinare anidride carbonica, producendo ossigeno. Restituire alla natura parte del suo patrimonio vegetale è la terapia di ossigenazione che il Pianeta ha bisogno per contrastare l’avvelenamento di cui è affetto; è il metodo più pratico per mitigare e contrastare i cambiamenti climatici.
Un giorno questa roccia arroventata e scevra di vita sulla quale siedo sarà di nuovo in ombra. Un’ombra profonda, umida, ricca. L’ombra misteriosa e affascinante, “sirenica”, della foresta pluviale.
Riforestare è diventato un bisogno reale dell’uomo. E si sa che dove c’è la domanda, si forma un mercato. Quello in questione è il mercato dei crediti di carbonio (carbon credits). Il credito di carbonio è una vera e propria unità di carattere finanziario che rappresenta la rimozione di una tonnellata di CO2 equivalente dall’atmosfera. Rappresenta la CO2 che è stata evitata, ridotta o sequestrata attraverso un progetto, e che può essere acquistato come mezzo per compensare le emissioni (carbon offsetting). Il meccanismo dei crediti di carbonio è stato introdotto per la prima volta nel 2005 con l’approvazione del Protocollo di Kyoto (il trattato internazionale che si occupa in particolare del riscaldamento globale con l’obiettivo della riduzione di gas inquinanti che derivano dalle attività umane). Come si può intuire, anche il progetto Udzungwa corridor limited rientra all’interno di questo mercato.
“Dall’inizio piantare alberi è stato il ragionamento più immediato e sensato per combattere la crisi climatica”, ci spiega Andrea Bianchi, botanico tropicale per l’Udzungwa corridor limited. “Attualmente il carbon offsetting è un sistema diffuso ma molto discusso, poiché, essendosi creato un business di miliardi di dollari, esistono realtà che se ne approfittano. Verra (la più grande ong mondiale che si occupa di standard in materia di carbon offsetting) si trova nel pieno della tempesta mediatica, soprattutto qui in Tanzania, dove i progetti di carbon offsetting sono molto diversi tra loro. Esistono buoni e cattivi progetti; tutto dipende dal rigore morale delle persone che vi prendono parte. Verra ha certificato anche il nostro progetto. L’Udzungwa corridor limited fa parte della percentuale delle iniziative dove il rapporto tra crediti rilasciati ed emissioni risparmiate dà uno”.
Cos’è il carbon offsetting
Vale la pena precisare cos’è il carbon offsetting e chi è Verra, perché riforestare non significa solamente riforestare.
Il carbon offsetting, quindi, è qualsiasi attività volta a compensare l’emissione di anidride carbonica (CO2) e di altri gas a effetto serra (misurata in anidride carbonica equivalente, CO2e) attraverso la riduzione delle emissioni di CO2 altrove.
In altre parole, tale meccanismo permette sia ai singoli individui che a interi Stati di compensare le proprie emissioni di CO2 attraverso il supporto a progetti certificati di riduzione delle emissioni, i quali assorbono o evitano la CO2. Questo si realizza attraverso l’acquisto di crediti di carbonio, dove un credito di carbonio corrisponde a una tonnellata di CO2 assorbita o evitata dal progetto in questione. Riforestare, assieme alla protezione di aree naturali o semi naturali preesistenti, all’agricoltura innovativa, e alla protezione delle aree marine, è uno di questi meccanismi.
Per precisare chi è Verra invece vale la pena fare un ulteriore passaggio. L’Accordo di Parigi, il primo accordo universale, giuridicamente vincolante sul clima a livello mondiale, firmato nel 2015 e ratificato dall’Unione europea nel 2016, parla chiaro: occorre emettere meno anidride carbonica e altri gas a effetto serra in atmosfera, e in fretta. Questo per contenere al di sotto dei 2 gradi centigradi, entro la fine del secolo, l’aumento della temperatura media globale sulla superficie delle terre emerse e degli oceani, puntando a un aumento massimo della temperatura pari a 1,5 gradi. Una delle strategie a nostra disposizione, assieme alle alternative elencate poco fa, è quella di aumentare la “capacità polmonare” del nostro pianeta attraverso la riforestazione.
Da questa necessità è nato e si è evoluto un mercato di crediti di carbonio che in pochi anni ha raggiunto cifre a nove zeri. Miliardi di dollari. Riforestare, conviene. L’idea di base è semplicissima: singoli individui e aziende hanno la possibilità di supportare economicamente progetti di tutela ambientale per compensare il proprio inquinamento. E quello che fanno le organizzazioni come Verra è di prendere questi soldi e promettere loro di trovare una tonnellata di anidride carbonica non emessa da qualcun altro. Semplice. Una tonnellata risparmiata? Un credito di emissione.
Detto così, potrebbe sembrare un mercato “perfetto”. Ci guadagnano le aziende che possono continuare a produrre comprando crediti per compensare l’inquinamento di cui sono responsabili. Ci guadagnano le aziende di consulenza per la compravendita dei certificati dei crediti. Ci guadagnano i responsabili dei progetti di tutela ambientale. Ci guadagnano gli enti regolatori, tra questi le ong come Verra, che stabiliscono il numero dei certificati collegati a ciascuno dei progetti e verificano che ogni certificato sia collegato a un effettivo risparmio di emissione. Infine, ci guadagna l’ambiente. Forse.
Ci sono cose che non si possono comprare
Non vale più il claim con il quale Mastercard esordì nel ‘97. Stando a recenti indagini ed inchieste parrebbe che il fantomatico mercato perfetto della neutralità carbonica, ovvero il raggiungimento di un equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di anidride carbonica (CO2), non sarebbe così perfetto come ci è stato fatto credere.
Qualche mese fa Verra, azienda leader nella gestione dei Verified carbon standard (Vcs), il programma di accreditamento di gas a effetto serra più utilizzato al mondo, si è trovata sotto la lente d’ingrandimento delle testate giornalistiche del Guardian, del Die Zeit e di SourceMaterial. A seguito di scrupolose indagini incrociate è risultato che l’organizzazione americana con sede a Washington avrebbe venduto crediti fantasma, i cosiddetti “phantom credits”, a numerose multinazionali inquinanti nel mondo, concedendo loro, almeno su carta, la spunta blu della sostenibilità.
In un mercato in cui il 75 per cento dei certificati viene rilasciato da Verra, risulterebbe che il 90 per cento di essi non sono veritieri o, per meglio dire, non rappresentano una congrua riduzione delle emissioni in atmosfera. Mentre aziende come Gucci, Shell, easyJet dichiarano net-zero alcuni dei loro prodotti, ci sono numeri e dati che agli esperti del settore non tornano. Il mercato offre zone d’ombra in cui, se qualcuno lo desiderasse, è possibile imbrogliare.
Anche i certificati delle emissioni di Udzungwa corridor limited sono stati emessi da Verra. Eppure, come in ogni cosa, il buonsenso e l’etica delle singole persone è la forza che fa la differenza. Perché esiste un metodo, un modello ideale e definito per riforestare.
La Royal botanic gardens kew di Londra ha redatto i criteri secondo cui un progetto di offsetting debba essere biologicamente, eticamente e correttamente condotto.
- Proteggere prima le foreste esistenti
- Lavorare a stretto contatto con le comunità locali
- Massimizzare il recupero della biodiversità
- Selezionare l’area ideale per la riforestazione
- Utilizzare la rigenerazione naturale quando possibile
- Selezionare specie di alberi che massimizzano la biodiversità
- Utilizzare specie di alberi resilienti che possono adattarsi al cambiamento climatico
- Pianificare con anticipo
- Imparare dai propri errori
- Far fruttare la spesa
L’Udzungwa corridor rispetta tutti e dieci i princìpi, rendendola una delle prime al mondo a piantare specie endemiche su larga scala, in una zona in cui, tuttora, altre compagnie e ong piantano pini messicani ed eucalipti australiani.
Udzungwa corridor: animali, piante ed esseri umani
Le foreste delle montagne dell’arco orientale, dove lavora Udzungwa corridor limited, ospitano un altissimo numero di specie endemiche di vertebrati che fanno sì che questa sia considerata una delle più antiche, climaticamente stabili e ricche aree di biodiversità dell’intero continente africano. Si tratta tra l’altro di specie ad alto rischio d’estinzione come nel caso di leopardi, leoni, elefanti, antilopi di foresta, serpenti, camaleonti recentemente descritti e scimmie (tanto per elencarne alcuni).
La riforestazione in tal senso è l’unico strumento disponibile per iniziare il riavvolgimento della perdita di habitat a cui queste specie sono sottoposte ormai da centinaia di anni. Perché la fauna contribuisce in maniera determinante all’espansione della flora; basti pensare al comportamento dei colobo (un tipo di scimmia) e al loro ruolo di dispersori di semi. La legislazione (già in atto da parte del governo tanzaniano) e lo scoraggiamento all’ancora persistente attività di bracconaggio da parte delle tribù locali sarà determinante perché ciò possa avvenire. Nonostante si tratti di regioni protette infatti, i locali sono spinti alla disperata e culturale ricerca di cibo.
Sulla superficie di questo gneiss vecchio due miliardi di anni crescerà di nuovo un tappeto di muschi e orchidee, brulicante di indaffarate formiche. Al di sotto di questa roccia tornerà a ripararsi dalla pioggia un cefalofo rosso.
“Non è difficile infatti imbattersi in cacciatori lungo i fiumi della zona o, nei casi più estremi, nelle tagliole disseminate nel parco”, racconta Andrea Bianchi. “Non si direbbe ma in questo caso specifico le fototrappole per il monitoraggio della fauna aiutano a scoraggiare l’attività di caccia, poiché viste dai locali come strumenti che, in un qualche modo, siano in grado di rintracciarli”.
Il ruolo fondamentale del progetto è rivestito dalla popolazione locale. Trovandosi in una zona isolata, senza servizi, con un sistema educativo e sanitario del tutto inesistente, la parte dei villagers, la tribù degli Hehe (che non caccia e che coltiva i campi) è costretta a spostarsi per trovare un introito con cui poter sopravvivere. La riforestazione offre a più di 5.500 abitanti un impiego con un guadagno decoroso, un luogo in cui poter soggiornare, il cibo e l’acqua con cui nutrirsi. In poche parole benessere.
Ne sono un esempio calzante Ruben e Aloisi Mwakisoma, fratelli della tribù degli Hehe, oggi parte fondamentale del progetto e specchio della transizione lavorativa in atto. Entrambi, fino a pochi anni fa, erano cacciatori che sopravvivevano di quello che la foresta aveva loro da offrire. Vederli muoversi nella foresta è la trasfigurazione dell’uomo in animale. La loro conoscenza capillare del luogo e la loro lungimiranza è la sinergia perfetta tra il direttivo della compagnia e la popolazione locale. È proprio grazie a persone come loro se il progetto Udzungwa corridor sta avendo successo.
Qualcosa in cui credere
Una volta che il progetto sarà concluso, tra trent’anni, la proprietà della foresta ritornerà in mano agli abitanti, a cui è stata affittata la terra (a un prezzo maggiore di quanto guadagnerebbero coltivandola) per rendere possibile la riforestazione. Sarà solo il tempo a dirci, tra trent’anni, se questo progetto sarà stato in grado di mettere d’accordo le necessità primarie delle tribù e quella di aiutare il pianeta su larga scala.
Se il micro avrà incontrato il macro, e viceversa. A noi invece non rimane che poter credere al buon senso dell’essere umano, in una lotta che richiede la massima attenzione. Perché davvero esiste una cosa che non si può più comprare: altro tempo.
Fra trent’anni magari, forse meno, un leopardo si avventurerà circospetto in queste nuove foreste, per lui e per noi. Magari, salito su di un affioramento roccioso, rilascerà un profondo ruggito territoriale e che, come solo questi primevi suoni africani sono in grado di fare, mi causerà un duraturo brivido di eccitazione in tutto il corpo. Il sogno, questo sogno, sarà allora avverato.
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