L’Amazzonia brasiliana è oggetto di una battaglia combattuta a colpi di sentenze e ricorsi. Il 18 agosto, una delle disposizioni più importanti per la protezione della foresta pluviale, la moratoria imposta sulla coltivazione di soia, è stata sospesa dalle autorità della nazione sudamericana. Una decisione assunta, nello specifico, dal Consiglio amministrativo di difesa economica (Cade). La notizia ha immediatamente sorpreso e inquietato, poiché potenzialmente in grado di aprire la strada alla deforestazione di un’area grande come il Portogallo da parte delle industrie agricole.
Il rischio di deforestazione di un’area grande come il Portogallo in Amazzonia
La notizia, inoltre, è arrivata a meno di tre mesi dalla trentesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop30 che si terrà proprio in Brasile, a Belém, nel prossimo novembre. Un segnale decisamente negativo mentre la nazione guidata da Lula cerca di porsi come collante per ottenere un consenso internazionale nella lotta contro il riscaldamento globale.
La questione è fondamentale se si considera che il Brasile è ancora oggi il più grande esportatore mondiale di soia: pianta erbacea utilizzata principalmente per alimentare bestiame e pesci ma la cui coltivazione è alla base di un’enorme quota di deforestazione. Per questo, nel 2006 si decise di lavorare a una moratoria all’interno della regione amazzonica.
Alla moratoria hanno aderito anche colossi industriali: Salvati 17mila chilometri quadrati di foresta
A partire da due anni più tardi (dal 22 luglio del 2008), numerose grandi aziende agricole – compresi colossi come Cargill, Bunge e Louis Dreyfus – accettarono di smettere di produrre soia nell’area dove sorge la foresta. Una vittoria non soltanto per la difesa dell’Amazzonia ma anche la conferma che è possibile lavorare insieme anche quando gli interessi sono sensibilmente diversi, se non contrapposti.
Non a caso, la moratoria è considerata un successo: nei 19 anni trascorsi da allora, ha permesso da un lato di scongiurare un devastante disboscamento, dall’altro ha consentito a numerose aziende di migliorare la loro reputazione. Si calcola che siano stati salvati circa 17mila chilometri quadrati di foresta. Tra il 2009 e il 2022, inoltre, la deforestazione è crollata del 69 per cento nelle aree coperte dalla moratoria.
Un tribunale federale ha ripristinato la moratoria dopo pochi giorni, ma resta un problema culturale
Fortunatamente, soltanto pochi giorni, il 25 agosto, dopo la sospensione improvvisa, un tribunale federale del Brasile ha imposto il ripristino dell’accordo. Tecnicamente, il Cade – che opera come organismo antitrust in Brasile – aveva indicato che lo stop alla produzione “nuoce alla libera concorrenza”. E per questo aveva imposto alle aziende di ritirarsi dall’accordo entro dieci giorni, altrimenti sarebbero scattate delle sanzioni.
La decisione dei giudici è stata accolta con soddisfazione da Greenpeace Brasile, che ha parlato di “sollievo” di fronte a una prospettiva di “smantellamento di un accordo così efficace”. Il fatto più straordinario è che il ricorso era stato presentato dall’Associazione brasiliana delle industrie di olio vegetale, organismo vicino agli interessi dei produttori. Il tribunale le ha dato ragione, sottolineando come la sospensione non avesse preso in considerazione tutte le questioni tecniche e giuridiche, e che avrebbe interferito con le politiche ambientali nazionali.
Una vittoria importante, insomma, ma la battaglia legale potrebbe non essere finita qui. E, in ogni caso, mostra come ci sia un altro terreno sul quale occorre lottare: quello culturale. Porre un’ipotetica garanzia di libera concorrenza al di sopra della necessità di tutelare uno dei luoghi più importanti al mondo per la mitigazione del riscaldamento globale e per la difesa della biodiversità mostra quanto ancora non sia compresa fino in fondo la gravità della crisi climatica.
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