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Gli arabian mau, originari dei deserti arabici, affollano ancora oggi le vie di Dubai e degli Emirati. Una razza antica, ma purtroppo decimata dall’uomo.
Questa volta parliamo di gatti. E di arabian mau, per l’esattezza, una razza originaria del Medio Oriente che si è sviluppata in più di mille anni senza l’intervento umano. Questi gatti vivevano nei deserti e non dipendevano dall’uomo per la loro sopravvivenza. Erano – e sono – adatti a una vita dura, senza punti di riferimento ambientali. Cacciavano di notte quando la temperatura desertica scendeva e, piano piano nel corso degli anni, alcuni esemplari si unirono alle varie tribù nomadi acquistando una parvenza di socialità, ma mantenendo le caratteristiche di gatti selvatici e autonomi, estremamente legati all’ambiente circostante. Degli arabian mau e della loro storia – ormai purtroppo triste e talvolta tragica – voglio parlare in questo editoriale dedicato a tutti i miei amici che condividono con un felino la loro vita e i loro affetti.
Petra Muller, una studiosa ambientalista residente negli Emirati Arabi Uniti, iniziò anni fa ad allevare arabian mau, facendoli conoscere e amare e riuscendo, nel 2008, a ottenere che venissero provvisoriamente riconosciuti come razza, per poi l’anno seguente essere ufficialmente considerati tali. Al di fuori del Medio Oriente, però, gli arabian mau non sono mai stati veramente conosciuti e rimangono una specie peculiare delle zone desertiche dei paesi orientali. Gatti di medie dimensioni, sono conosciuti per la loro voce potente – che per fortuna usano poco – e per la loro formidabile abilità di cacciatori. Amano il contatto con la natura, anche se riservano affetto e amore al compagno umano, adattandosi alla vita familiare.
L’arabian mau è estremamente territoriale e geloso del suo territorio. Inseriti nel nucleo famigliare, però, sono particolarmente amorevoli con i bambini di cui sopportano capricci e intemperanze e, se introdotti da cuccioli, legano con gli altri felini senza distinzione di sesso. La razza teme il freddo – hanno pelo corto e in un solo strato vista l’origine in climi estremante caldi –: attenzione, quindi, perché non si adatta bene alle temperature più rigide dell’emisfero continentale.
Su di loro sono fiorite nei secoli molte leggende. Si dice che Maometto avesse una gatta di questa razza che amava tantissimo. Per non disturbarla, un giorno mentre dormiva sulla manica della sua tunica, si tagliò l’indumento e andò via lasciandola sul “ritaglio” della manica. Si racconta, inoltre, che la gatta avesse salvato il Profeta da una serpe e che, per ringraziarla, Maometto l’avesse segnata sulla fronte (la famosa M di micio che si vede sui musetti di alcuni gatti tigrati). Non solo, avrebbe perfino “regalato” ai gatti la facoltà di atterrare su quattro zampe per non farsi male in caso di caduta.
Con l’avanzare degli insediamenti umani, gli arabian mau, abituati a vivere nelle atmosfere inclementi dei deserti arabici, si spostarono progressivamente nelle aree metropolitane. Si adattarono alla vita di strada e si riprodussero – purtroppo – non tenendo conto dell’uomo e della distruttività che lo connatura nei confronti dell’ambiente e della natura. Ormai la realtà ad Abu Dhabi (capitale degli Emirati) e a Dubai (emirato confinante) per i randagi (cani e gatti) è drammatica da anni. E lo è ancora di più in questo periodo perché a Dubai è in corso l’Expo (iniziata il primo ottobre, proseguirà fino al 22 marzo 2022).
Mi racconta un’amica e collega giornalista – Valeria Verri che ringrazio di cuore per le notizie su questi insoliti felini – che già prima dell’Expo era iniziata la strage dei gatti randagi che popolano a centinaia di migliaia le strade cittadine. Negli Emirati non c’è alcuna cultura animalista da parte dei locali, a cui si unisce l’indifferenza delle popolazioni più povere che vengono da Bangladesh, Sri Lanka, ecc., troppo presi dai problemi delle periferie degradate per essere partecipi di quelli dei randagi locali. Gli unici ad avere a cuore la sopravvivenza di questi gatti sono gli immigrati “di lusso”, gli occidentali come gli europei e i nordamericani che, tollerati dalle autorità, insieme ad alcune associazioni animaliste hanno adottato e promuovono l’adozione e la sterilizzazione degli arabian mau che affollano le vie cittadine.
Tentativi di salvezza che, spesso, si basano solo su azioni individuali e vengono affossati da quelle collettive. Su Facebook girano filmati amatoriali orrendi nella loro tragicità dove si vedono questi gattini catturati e messi in gabbia per poi poter essere eliminati – in modi fantasiosi e molto cruenti – per sgombrare le strade dalla loro mal tollerata presenza. “Sono centinaia di migliaia i randagi nelle strade degli Emirati e il governo, anziché riconoscere questa razza autoctona come patrimonio della penisola arabica, mettendo in atto azioni di protezione, sterilizzazione, creazione di colonie feline controllate e incentivi per l’adozione, finge di ignorare le azioni di ‘pulizia’ messe in atto da società private, alle dipendenze di proprietari immobiliari o di negozi e grandi centri commerciali. In teoria, ci sarebbero leggi che vietano la crudeltà sugli animali, con dei form su Internet per denunciare gli episodi di cui si è stati testimoni. Ma si tratta di iniziative rivolte più ad animali come cammelli, falconi, gazzelle, tenuti in maggiore considerazione rispetto a gatti e cani”, mi spiega Valeria che ha adottato alcuni arabian mau per portarli con sé nella sua casa in Spagna.
Come nel caso dei galgos e dei podenco, anche la salvezza degli arabian mau sta nell’azione individuale. E in quella delle varie organizzazioni animaliste più o meno presenti sul territorio che cercano di favorire le adozioni e, quindi, la sopravvivenza di gatti e cani randagi. Ci sono vari siti a cui rivolgersi per adottare un arabian mau e salvarlo dalla morte e dalla tortura. E ci sono portali per le adozioni, spesso, in inglese, ma di facile utilizzo anche per chi non conosce la lingua.
Insieme a questi volontari che, ogni giorno, sacrificano un po’ di tempo e di vita per questi felini, cercando di preservarne non solo l’individualità, ma anche il patrimonio genetico che sopravvive da secoli agli insulti dell’uomo, forse si riuscirà a portare avanti un piano di aiuti che ne garantisca, almeno, una sopravvivenza di razza. Confidando che, anche per i nostri amici a quattro zampe, alla fine si possa arrivare a un mondo più rispettoso di tutto ciò che ci circonda.
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