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Icam, azienda lecchese che vanta oltre 75 anni di storia nel settore del cioccolato, fa il punto sui progressi fatti in termini di sostenibilità.
Immaginiamo una fitta foresta ugandese in cui gli animali – incluse le specie via di estinzione – vivono liberi e le piccole piante di cacao crescono all’ombra degli alberi più alti. E immaginiamo che ci sia proprio quel cacao nelle tavolette che compriamo al supermercato o nelle creme usate dalla nostra pasticceria di fiducia. Non è una fantasia di un ambientalista un po’ romantico: si chiama agroforestazione ed è un approccio che, secondo diversi studi scientifici, risulta più vantaggioso rispetto alle monocolture in termini di rese complessive, biodiversità, mitigazione dei cambiamenti climatici e diversificazione dei redditi dei coltivatori. È una strada che sta sperimentando anche Icam, storica azienda lecchese che vanta oltre 75 anni di storia nel settore del cioccolato.
Le emissioni di gas serra di Icam sono dovute per il 95 per cento al cosiddetto Scope 3, cioè non alle attività dell’impresa (Scope 1) o all’energia elettrica acquistata (Scope 2), bensì alla filiera. Tra i prodotti acquistati, il cacao è il principale responsabile con una quota dell’86 per cento. L’ha spiegato la chief sustainability officer Sara Agostoni, presentando a Milano il quarto bilancio di sostenibilità dell’azienda. “Quando abbiamo misurato la carbon footprint del nostro cacao ugandese, però, abbiamo notato che era molto più bassa rispetto alla media: 3 kg di CO2eq per ogni kg di cacao contro 11. Questo perché il cambiamento nell’uso del suolo, cioè il passaggio da aree naturali a coltivazioni, incide molto meno rispetto alla norma”, spiega.
È anche per questo che, nonostante le difficoltà legate alla pandemia, Icam ha avviato i lavori per due sistemi agroforestali in Uganda e in Perù. È stato dimostrato che anche il cacao biologico ha un impatto più moderato in termini di emissioni, perché viene coltivato senza l’uso di pesticidi e fertilizzanti di sintesi. Icam è stata la prima azienda in Italia a produrre cioccolato bio, fin dal 1997: oggi l’81 per cento del cacao acquistato è biologico o Fairtrade. Sommando il premio Faitrade pagato agli agricoltori, si arriva a un totale di oltre 2,5 milioni di euro: denaro che si aggiunge al prezzo del cacao e che può quindi essere reinvestito in servizi, strumenti di lavoro, formazione, infrastrutture.
Soprattutto quando una filiera è necessariamente lunga, come quella del cioccolato, l’attenzione agli aspetti sociali e ambientali fa la differenza. Ma nel bilancio di sostenibilità 2021 di Icam c’è anche molto altro. Per esempio l’economia circolare, cioè quell’approccio virtuoso che riduce al minimo gli scarti lungo l’intero ciclo di vita dei prodotti. I numeri sono eloquenti. Nel 2011, il 51,1 per cento degli scarti organici (come i residui di fave di cacao) veniva smaltito. Esattamente dieci anni dopo, meno del 10 per cento è considerato un rifiuto: tutto il resto viene destinato ai mangimifici o alla produzione di energia da biomasse, con un netto vantaggio ambientale e, perché no, anche economico.
Che dire, invece, del packaging? A partire da febbraio 2020 è stata ridotta la grammatura degli astucci, cosa che ha assicurato un risparmio di 64 tonnellate di carta. Per l’imballaggio primario, cioè quello a diretto contatto con il prodotto, la quota di materiale multistrato e accoppiato è stata progressivamente abbassata. Oggi il 91 per cento del packaging è completamente riciclabile.
Con un fatturato 2021 di 187,8 milioni di euro, dovuto per il 60 per cento alle esportazioni, Icam è uno dei primi gruppi italiani nel comparto del cioccolato. Molti consumatori lo conoscono per il brand Vanini, ma realizza anche prodotti a marchio e linee specifiche per i pasticceri, oltre a produrre tavolette per i marchi della grande distribuzione e cioccolato, polvere e semilavorati per l’industria.
Il bilancio di sostenibilità 2021, redatto sulla base degli standard della Gri – Global reporting initiative e con riferimento ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, è il quarto nella sua storia. Ma è il primo che viene pubblicato da quando l’azienda ha voluto insediare un team dedicato alla sostenibilità, guidato da Sara Agostoni, già direttrice acquisti ed esponente della terza generazione della famiglia fondatrice.
Così facendo, assicura Agostoni, è stato dato un indirizzo formale a un’attitudine verso la sostenibilità che, in un certo senso, era sempre esistita. “I miei nonni prima, e la seconda generazione poi, hanno infatti testimoniato nel corso di 75 anni di storia e ci hanno trasmesso che una impresa può avere futuro solo se capace di essere soggetto proattivo, creare valore e relazioni durevoli nel tempo, cioè impatti positivi per le persone e le comunità, dai coltivatori delle nostre materie prime, alle comunità dei collaboratori, fornitori, clienti, con rispetto e condivisione dei valori della società di appartenenza”, dichiara.
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