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Il Regno Unito chiuderà entro dieci anni tutte le centrali a carbone, gli impianti elettrici più inquinanti al mondo. Nel 2014 la riduzione dell’otto per cento delle emissioni di CO2 è stata realizzata in larga parte alla diminuzione dell’uso del carbone per la generazione dell’elettricità, secondo quanto dichiarato dal dipartimento britannico per l’Energia (Decc).
Il Regno Unito chiuderà entro dieci anni tutte le centrali a carbone, gli impianti elettrici più inquinanti al mondo. Nel 2014 la riduzione dell’otto per cento delle emissioni di CO2 è stata realizzata in larga parte alla diminuzione dell’uso del carbone per la generazione dell’elettricità, secondo quanto dichiarato dal dipartimento britannico per l’Energia (Decc).
Se a spingere fuori mercato il carbone sono lo sviluppo delle rinnovabili e il basso prezzo del gas, come suggerisce l’agenzia di stampa Thomson Reuters, ora la sfida è fare in modo che sia proprio l’energia pulita a colmare il vuoto lasciato dalle centrali a carbone. Una strada in salita visto che lo stesso governo di Londra intende supportare l’industria del petrolio e del gas naturale che dà lavoro a migliaia di famiglie.
La campagna #keepitintheground, nata negli Stati Uniti e supportata dal principale quotidiano britannico Guardian, vorrebbe che anche gli altri combustibili fossili rimangano inutilizzati, sotto terra. In che modo? Convincendo i principali attori economici, come le grosse fondazioni o i fondi pensione, a smettere di investire i loro capitali in quell’industria (divest, in inglese). La campagna punta sullo stigma associato al fatto di investire in risorse inquinanti oltre che su concretissime motivazioni economiche.
Nell’ultimo anno fiscale il fondo pensioni degli insegnanti della città di New York avrebbe perso almeno 135 milioni di dollari dagli investimenti fatti in compagnie di gas e petrolio, secondo il rapporto commissionato dall’ong 350.org: una perdita di più del 25 per cento su quegli stock.
La campagna #keepitintheground è stata considerata tra le più efficaci, anche in confronto ad altre azioni per esempio contro il tabacco o l’apartheid. Intanto, il movimento divest sta prendendo sempre più piede a livello internazionale e già 2.600 miliardi di dollari investiti in carburanti fossili sarebbero in via di dismissione, secondo il quotidiano Financial Times. Anche 26 membri del parlamento di Londra hanno chiesto che il proprio fondo pensione si muova nella stessa direzione.
Oltre che etiche o ambientali, sono forti le motivazioni economiche: quest’industria non è più remunerativa, il rischio è aumentato e i prezzi sono crollati, mentre le tecnologie per le rinnovabili migliorano. Laddove le compagnie parlano di una situazione ciclica, le reazioni lasciano intuire altro: nel mare del Nord molti pozzi vengono chiusi e l’Arabia Saudita, il primo produttore di greggio al mondo, ha tagliato il proprio budget di spesa per stare al passo con la diminuzione delle entrate provenienti dalla vendita dei barili.
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Per limitare il riscaldamento globale entro i due gradi, come vuole l’Accordo di Parigi adottato durante la Cop 21, circa un terzo del carbone, del gas e del petrolio nascosti nei giacimenti finora conosciuti dovrebbero rimanere sotto terra, secondo quanto emerge da un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie). Ci si aspetta inoltre che la regolamentazione del settore dell’energia tenderà verso politiche che rendono i combustibili fossili antieconomici proprio per via dei cambiamenti climatici: quando nessuno vorrà o potrà più bruciarle, quindi le risorse fossili perderanno ogni valore. Si sta gonfiando una bolla che presto o tardi esploderà e che può essere evitata investendo in portafogli meno rischiosi.
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