Cooperazione internazionale

Un carnevale di colori per mettersi nei panni di chi sogna una casa, per uscire dall’ombra della strada

Dietro ogni persona c’è una storia, ci sono emozioni. Una complicata banalità che spesso dimentichiamo quando ci troviamo di fronte agli ultimi, a chi non ha nulla. Questa è la storia di alcuni ragazzi di strada di Nairobi che hanno sovvertito lo stereotipo con una grande festa.

Quando ho ricevuto la telefonata che mi chiedeva di seguire da vicino l’esperienza di Carnival! Nairobi, la mia mente è subito volata a quella serata d’autunno dello scorso anno al Barrio’s, un teatro in zona Barona, a Milano. E a quel caffè preso il giorno dopo con Emiliana Sabiu e Carlo Spiga dell’associazione Cherimus. Quella sera Cherimus e, un’altra associazione, Amani presentavano il cortometraggio Bisu Ndoto, due parole di due lingue diverse – rispettivamente sardo e swahili – con lo stesso significato: “sogno”.

Bisu Ndoto è nato da un progetto – Ciak! Kibera – che ha visto un gruppo di artisti girare un corto musicale per le strade di una delle baraccopoli più grandi dell’Africa subsahariana, Kibera, che si trova a Nairobi, capitale del Kenya. Quella volta, gli artisti di Cherimus hanno lavorato con gli ex bambini di strada che, grazie al lavoro di Amani e di Koinonia Community, il terzo protagonista di questa storia, vivono in case di accoglienza, centri educativi, scolastici e professionali gestiti da operatori locali. Ma il progetto di cui sto per raccontarvi è decisamente più ambizioso: far sfilare il carnevale a Nairobi, il primo mai organizzato nella capitale del Kenya.

Cosa vuol dire vivere in strada

Il carnevale ha coinvolto direttamente i gruppi di ragazzi che ancora vivono in strada, anche se nel frattempo alcuni hanno scelto di entrare a far parte di questi centri. “Eravamo pieni di domande e di dubbi su cosa volesse dire lavorare con i ragazzi che vivono in strada”, commenta Sabiu, artista responsabile di Carnival! Nairobi. “Ma gli educatori ci hanno accompagnato passo dopo passo rendendo il nostro progetto possibile”.

Cosa vuol dire vivere in strada? Una domanda che non ha una risposta precisa, e a volte una risposta non c’è. Vivere in strada, infatti, significa tante cose.

Ad esempio, può vuol dire decidere di abbandonare la propria casa per l’assenza di una famiglia che si prenda cura. Vuoi per violenza, vuoi per povertà, vuoi per tutte queste cose messe insieme. Altre volte vuol dire essere stati cacciati da quelle stesse case.

Vuol dire affidarsi ad altri ragazzi che vivono in strada e cercare in loro una “famiglia”. Significa inventarsi mezzi e strumenti per riuscire a superare la necessità continua di riempire le ore e lo stomaco senza farsi “mangiare” dai pensieri e dalle preoccupazioni. Da qui, la maggior parte di questi ragazzi, gli street children, sceglie la colla e il carburante per aerei pur di “annebbiare” quelle voci e di “stordire” lo stomaco, dissuadendolo dalla continua richiesta di essere riempito. “Sniffo la colla così non sento la fame”, è una delle motivazioni più comuni.

Vivere in strada vuol dire lottare ogni notte per sopravvivere, trovare un posto sicuro, una baracca improvvisata, ed evitare di finire coinvolti in qualche scontro nato all’improvviso, in qualche vendetta o in qualche retata che persino la polizia organizza per dimostrare di fare qualcosa per risolvere questo “problema”. Sì, perché per buona parte della comunità i bambini di strada sono chokora, spazzatura che di tanto in tanto si cerca di rimuovere (o semplicemente spostare) per dare un’immagine più pulita della città.

“Sarebbe sinceramente stato molto più semplice organizzare un bel carnevale in maschera con i bimbi che vivono nei nostri centri, coinvolgendo le scuole di quartiere, invitando la gente a una bella parata e divertirci tutti assieme”, scrive Chiara Avezzano, responsabile della progettazione di Amani e che da anni vive tra Milano e Nairobi. “Invece no, noi volevamo quei ragazzi lì, non altri. La parata dovevano condurla loro. Vogliamo dar loro l’opportunità di rovesciare l’ordine delle cose, sciogliere le regole dettate da questa società che mette i ragazzi in un angolo e li chiama ‘animali’. Volevamo dar vita al caos per sconvolgere un ordine sbagliato e ricostruirne uno nuovo”.

Il carnevale come una finestra che consente di vedere tesori nascosti

Un approccio simile a quello di Okada Buluma, responsabile delle finalità sociali dei progetti di Koinonia Community che definisce il carnevale “come una finestra che consente al mondo e alla società di vedere questi tesori nascosti (i bambini di strada, ndr). Tutti noi di solito, quando guardiamo verso la vita di strada, vediamo solo cose negative, persone che vivono una situazione pietosa. Ma dando loro un’occasione, queste persone splendono, questi bambini riescono a fare cose che non possiamo nemmeno immaginare: il carnevale dà l’opportunità di vedere questa potenzialità nella sua pienezza”.

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L’esperienza di Carnival! Nairobi è cominciata nel sud della Sardegna con la conduzione di laboratori artistici nelle scuole dei paesi di Narcao e Perdaxius, due piccoli comuni sardi. A Perdaxius, 1.400 anime, c’è anche la sede di Cherimus. A fine febbraio il gruppo di artisti composto da Matteo Rubbi, Derek MF Di Fabio, Fiammetta Caime ed Emiliana Sabiu si è trasferito a Nairobi per portare in terra africana le attività – in quella che è stata una vera e propria residenza d’artisti di nome Darajart* – che si sono concluse con il carnevale, il 14 aprile. Una parata fatta di carri, maschere, bandiere e musica che ha animato le strade del quartiere Riruta dove si trova il centro Kivuli (che vuol dire “rifugio”), il più importante, la “capitale” dell’associazione Koinonia in Kenya. A prendere parte al carnevale sono stati, in particolare, i ragazzi di strada delle basi dei quartieri di Kawangware, Mtindwa e della città di Ngong.

Dare una possibilità di scelta

Dicevo che alcuni dei ragazzi coinvolti hanno scelto di abbandonare la vita di strada. I laboratori si sono svolti all’interno di un percorso che i social worker, gli educatori di Koinonia, ripropongono ogni anno, da oltre 20 anni. Un percorso il cui scopo è dare una possibilità di scelta a bambini che non hanno scelta. Un’azione semplice come “disegnare un sogno”, una delle attività proposte dagli artisti di Cherimus, diventa uno dei pochi momenti per esprimersi, per capire cosa questi ragazzi vorrebbero essere in futuro. “Questo ci aiuta soprattutto nel processo di recupero di alcuni bambini”, afferma Mary Osinde, una delle educatrici intervistata da Matteo Rubbi. “Quando andiamo in strada incontriamo questi giovani ragazzi. Creiamo un legame per un periodo di tre mesi, conoscono i nostri nomi, risaliamo alle case da dove sono scappati così da poter conoscere le loro famiglie prima che entrino nei nostri centri. Nel frattempo stiamo con loro, facciamo attività, colazione e pranzo. Condividono i loro pensieri e si aprono con noi, a volte ci spiegano perché hanno lasciato casa e sono finiti in strada”.

Il sogno di una casa

Le tre basi coinvolte in Carnival! Nairobi hanno portato a forme di espressioni diverse, ma spesso comuni. Tutti i ragazzi hanno un sogno nel cassetto che li ha messi d’accordo: la casa. Questo sogno è nella testa di ciascuno di loro, e per questo “non l’abbiamo sviluppata subito”, racconta Sabiu, “l’abbiamo lasciata in incubazione e abbiamo iniziato a costruirla a pochi giorni dal carnevale. Ideata nelle rispettive basi come fosse un prototipo, il concetto di casa è stato poi sintetizzato in un progetto che abbiamo realizzato a Kivuli e montato su un pick-up” per poi sfilare al centro della parata, come un cuore pulsante fatto di musica e danze.

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Un matatu come lavoro

L’altro elemento, l’altro oggetto del desiderio per molti dei bambini coinvolti è stato il matatu, cioè il caratteristico bus per il trasporto pubblico, spesso colorato e aerografato che sfreccia per le disastrate vie di Nairobi riempiendole di musica e di smog. Lavorare su un matatu “è un punto d’arrivo, un obiettivo comune espresso da due delle tre basi con cui abbiamo lavorato”, sottolinea Sabiu. Se i ragazzi di Kawangware hanno deciso di realizzare un “matatu volante” che supera il traffico “perché ha delle lunghe gambe di metallo e di bambù che consentono alle automobili di passare sotto”, quelli di Mtindwa hanno dato vita a un “matatu dragone” lungo otto metri: “Un’opera impegnativa e gigantesca che però è stata resa possibile dalle sarte di Kivuli”.

I materiali scelti e le persone che hanno lavorato alla realizzazione dei carri, infatti, provengono dal quartiere intorno al Kivuli centre. Una scelta voluta al fine di coinvolgere la comunità e renderla partecipe e consapevole del progetto e delle sue finalità sociali. “Chi meglio delle persone del posto può dirti come funzionano le cose e di cosa c’è bisogno per farle funzionare?” domanda Avezzano di Amani. “Arrivare con le cose già fatte, senza coinvolgere la comunità non avrebbe avuto senso. Coinvolgere i ragazzi di strada è stato un progetto ambizioso e insieme a loro sono sbocciate idee poi trasformate in realtà”. “Il nostro intervento è stato marginale, abbiamo solo messo le nostre competenze al servizio dei ragazzi e delle loro idee – continua Sabiu –. Per questo i tempi sono stati più lunghi del previsto e forse due mesi alla fine sono sembrati pochi. Però abbiamo voluto coinvolgere le persone, ma anche le risorse materiali del quartiere in cui abbiamo lavorato”.

La foresta di Ngong

Nessun matatu, ma una foresta per Ngong. Sarà stato per il contesto, decisamente più verde vista la vicinanza con le celebri colline che abbracciano questa città alle porte di Nairobi, ma qui le idee dei ragazzi sono state piene di alberi, fiori, animali, tra cui un bellissimo scorpione che ha colpito gli artisti di Cherimus. “Abbiamo immaginato una foresta magica e uno scorpione che però ha creato qualche problema”, ricorda Sabiu. “L’idea era di portare in ‘processione’ un tubo lungo con una coda e una testa. Poi, però, questo scorpione avrebbe rischiato di perdere pezzi per le confuse strade di Nairobi facendo passare il messaggio di un carro fragile”. Un messaggio che avrebbe tradito le attese dei ragazzi. “Abbiamo cambiato questa idea in corso d’opera e lo scorpione è entrato a far parte della foresta realizzata con degli ombrelli che potevano avere la doppia funzione di essere belli e colorati, ma anche di proteggere i ragazzi dagli scrosci di pioggia tipici di questo periodo”. E lo scorpione è riapparso in tutta la sua magia.

#froggingaround in Ngong . . #carnivalnairobi Un post condiviso da Cherimus (@_cherimus_) in data:

Durante uno di questi workshop a Ngong la situazione tra i ragazzi era piuttosto agitata, direi nervosa. Era difficile catturare la loro attenzione sulle attività da svolgere per la costruzione della foresta. Figuriamoci riuscire a mantenerla. C’era chi dormiva, chi si distraeva e distraeva gli altri mentre i social worker cercavano di raccontare il programma della giornata. A un certo punto Jack Matika, che da anni fa l’educatore di strada e vive per mesi in mezzo ai ragazzi conquistando notte dopo notte la loro fiducia e il loro rispetto, decide che è il momento di intervenire per cercare di far rientrare la situazione. Usa un tono deciso e parole anche dure ricordando ai ragazzi che “stare qui e partecipare a questa iniziativa è una scelta, non un obbligo e per questo chi vuole rimanere deve rispettare le regole, i volontari e gli artisti che sono arrivati qui dall’Italia apposta” per stare con loro. Per chi non accetta queste condizioni, la vita di strada è lì a portata di mano. Questo aspetto – cioè l’idea che ragazzi dall’Italia siano venuti apposta in Kenya per stare con loro, con chi viene chiamato “chokora” dalle persone del posto – ha un forte impatto e, insieme a molte altre parole di Jack, riaccende la speranza riportando la situazione sotto controllo.

Pochi minuti dopo, lo stesso Jack – che fino ad allora era stato fermo e deciso con i ragazzi – mi prende in disparte e mi dice che quella notte questa base è stata attaccata, e lo fa con un tono totalmente diverso, usa parole di comprensione nei confronti dei ragazzi. Alcuni sono stati aggrediti con lame e coltelli, quasi tutti hanno passato la notte insonne: “Vieni, ti faccio vedere cosa è successo a uno di loro”, e mi porta da un ragazzo, gli chiede di sollevare la maglietta e di mostrarmi la spalla. Il taglio è netto.

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Mi sorprende così Jack, facendomi capire quanto sia importante mantenere il ruolo, a volte essere duri, ma senza mai perdere la tenerezza. Del resto, lui aveva capito di voler fare questo lavoro sin dall’età di 12 anni, quando comunicò a sua madre la volontà di fare l’insegnante. E ancora ha voglia di studiare per cercare, un giorno, di riuscire ad avere il ruolo per poter cambiare le politiche che fanno la differenza. Non solo per le centinaia di ragazzi che sono passati dai centri di Koinonia e Amani nel corso degli anni, ma per le centinaia di migliaia che vivono per le strade di Nairobi. È questo che continua a motivarlo nonostante tutto.

Un bambù fa percorsi strani, ma mette radici profonde

“Quando ho visto le difficoltà dei primi workshop, ho pensato al bambù che, per crescere, fa percorsi strani – afferma Okada Buluma –. Piantarlo può sembrare una perdita di tempo, perché gli anni passano ma non si vede crescere niente e si è quasi tentati di smettere di coltivarlo”. In realtà sta solo mettendo radici.

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Un bimbo partecipa al carnevale di Nairobi, il primo organizzato nella capitale del Kenya © Francesca Casassa Vigna

Allo stesso modo “costruire questo carnevale può essere stato faticoso, perché ogni gruppo di strada è diverso e vive un’esperienza unica: a volte ci vuole più tempo per capire le dinamiche che si vivono in strada”. Un tempo necessario per costruire una relazione, prendere confidenza, conquistare la fiducia dei ragazzi e partecipare alla loro vita in modo nuovo. E quando si raggiunge l’intesa tutto risulta più facile e veloce. “Proprio come il bambù cinese che, dopo cinque anni, spunta all’improvviso, cresce velocissimo e va molto in alto”, conclude Buluma.

Leggi tutti gli articoli sul progetto Carnival! Nairobi

Proprio come il matatu costruito dai ragazzi che simbolicamente, per un giorno – il 14 aprile, giorno del carnevale – ha spiccato il volo e superato tutte le avversità, i pensieri, le preoccupazioni, regalando ai ragazzi una giornata diversa, da ricordare anche quando il buio tornerà e quelle voci si faranno di nuovo sentire. Un pensiero felice accompagnato da risate che forse saranno in grado di far passare in secondo piano anche la voglia di sniffare.

Il carnevale è stato un modo per minacciare lo status quo

“È stata la prima volta che si è tenuta una parata del genere, lunga sei chilometri, tra le strade di Riruta. Gli oltre 300 ragazzi di strada hanno sfilato con organizzazioni e istituzioni e i feedback sono stati assolutamente positivi. Non hanno creato alcun disordine – ricorda infine Avezzano – facendo passare alla comunità un messaggio immenso. Anzi due, perché oltre a cantare, ballare, suonare, hanno presentato carri costruiti con le loro mani e resistito a oltre cinque ore di sfilata”.

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I ragazzi di Cherimus e Amani spingono il matatu volante per le strade del quartiere Riruta a Nairobi © Francesca Casassa Vigna

È stato un modo per sovvertire lo stereotipo del ragazzo di strada che crea disordini o ruba nelle baracche. “I ragazzi sono stati visti con altri occhi e hanno dato dimostrazione di essere in grado di gestire uniti un evento, anche dal punto di vista logistico”. E di prendersi cura l’uno dell’altro. Nella speranza che, prima o poi, qualcuno dica loro che è giunto il momento di lasciare la strada e di tornare a casa. Quello che gli educatori di Koinonia, sostenuti da Amani, fanno da oltre vent’anni.


*Darajart è un programma di residenza per artisti internazionali ospite nei centri gestiti da Amani. Darajart è nato da un’idea del co-fondatore di Cherimus Marco Colombaioni, scomparso nel 2011. Nella lingua swahili, Daraja significa ‘ponte’. Nella mente di Marco, Darajart era un modo di costruire ponti per incontri inaspettati fra il mondo dell’arte e la vita pulsante di Nairobi. La sua idea era quella di invitare artisti di diverse discipline per vivere e lavorare nella più grande baraccopoli dell’Africa subsahariana, Kibera. La prima edizione pilota del Darajart si è svolta nel 2015. Per poi ripetersi nel 2017 e nel 2018, durante Carnival! Nairobi.

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