
La società LEGO ha spiegato che anni di studi e sperimentazioni non hanno portato a trovare materiali più sostenibili adeguati. Ma la ricerca continua.
Ci sono imprese che dichiarano qualità ambientali e sostenibili che in realtà non possono vantare. E’ il fenomeno del “greenwashing”. Ecco qualche esempio.
Il fenomeno–
“Greenwashing“è il termine che definisce il
“lavaggio”, ovvero una pennellata “green”, una risciacquata di
colore verde sul brand. E, sotto la mano di vernice, spesso non
c’è granché di sostenibile, si evidenzia una singola
caratteristica ritenendola sufficiente per classificare come
sostenibile il prodotto, ignorando altri aspetti più
importanti. O ancora, fornire dati e informazioni presentandoli
come certificati da sé stessi, senza l’intervento di una terza
parte indipendente che garantisca procedure e veridicità.
Alcuni casi eclatanti– A
titolo di esempio, la società petrolifera Bp, responsabile
nell’estate scorsa nel Golfo del Messico della
più grave disastro ambientale nella storia
degli Stati Uniti, solo qualche mese prima aveva investito 200
milioni di euro per una campagna di greenwashing, cambiando i
colori delle insegne e presentandosi come un gruppo socialmente
responsabile e amico dell’ambiente.
Il trend del mercato– La
richiesta di prodotti ecologici cresce e le aziende si adeguano:
ma, se alcune ripensano in chiave green le logiche produttive
cambiando davvero la sostanza delle cose, molte altre si limitano a
operazioni di facciata, solo commerciali e di marketing. E
così facendo, nel tentativo di sedurre il consumatore,
finiscono per ingannarlo. Il solo marchio ecologico, infatti basta
ad attirare i consumatori nella trappola: il danno del greenwash
è dunque duplice, in quanto da una parte si illudono i
consumatori che vorrebbero prodotti concepiti con logiche diverse,
dall’altra si demotivano gli imprenditori che stanno riadattando
davvero la propria attività.
Le contromisure– in tutto il
mondo chi compra è ormai costretto ad affilare le proprie
armi di autodifesa se è vero, come sostiene l’inglese
Advertising standards
authority (Asa), che il numero di denunce legate alle
dichiarazioni di eco-sostenibilità dei prodotti raddoppia di
anno in anno. E, in attesa di regole chiare, resta valido l’antico
rimedio, ovvero non credere fino in fondo alle pubblicità e
informarsi autonomamente per altre vie: a dare un grosso contributo
in questo senso ci sono infatti i controllori e gli esperti di
greenwashing, che si stanno moltiplicando, soprattutto su internet,
basti pensare al successo clamoroso del blog
del giornalista inglese Fred Pearce: nel suo spazio sul sito di
“The
Guardian“, il reporter britannico ha raccolto un
documentato catalogo di clamorosi trucchi “verdi” contro la moda
del greenwashing.
Le certificazioni– Non
costituiscono una garanzia in quanto tali, dato che spesso si
tratta di auto-controlli. Secondo una recente ricerca effettuata da
Gfk Eurisko, il 67%
degli italiani chiede alle aziende bollini verdi “veri e verificati
da terzi”. Ma i consumatori sono disposti a prendersi sulle spalle
il costo di questo sforzo di rinnovamento? Niente affatto: solo il
3% del campione intervistato da Gfk Eurisko spenderebbe di
più per avere un prodotto eco-compatibile: la
caratterizzazione «green» non è dunque, da sola,
un sinonimo automatico di qualità superiore.
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