Non solo Elon Musk e non solo Donald Trump. La scusa della necessità di limitare i costi per abbattere le politiche di lotta contro i cambiamenti climatici è ormai sempre più in voga in tutto il mondo. Prova ne sono le scelte operate dalla seconda commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, il cui asse appare sempre più spostato su posizioni conservatrici. Ma situazioni simili si registrano anche a livello nazionale in molti paesi europei e non solo. Ultimo caso in ordine di tempo è quello che riguarda l’Ecuador.
Eliminati sei dei venti ministeri dell’Ecuador, licenziate 5mila persone
La nazione sudamericana guidata dal presidente Daniel Noboa, che già in passato non ha fatto mistero di voler puntare sul petrolio per rilanciare l’economia, ha operato un’ampia spending review nella pubblica amministrazione. Il 24 luglio il capo di Stato ha firmato in fatti un ordine esecutivo (il numero 60), attraverso il quale vengono eliminati sei dei venti ministeri che fino a quel momento hanno composto il governo di Quito. Il che si tradurrà in cinquemila licenziamenti (che saranno “immediati”, secondo quanto annunciato dalla stessa presidenza). Il tutto, promette l’esecutivo dell’Ecuador, “sulla base di criteri di efficienza” e per offrire “servizi pubblici di qualità ai cittadini”.
Ecuador’s government is firing 5,000 civil servants and cutting down the number of ministries and related public offices by about 40% https://t.co/aFyclBPz0k
Se lo stato latino-americano non è di certo il primo ad operare alcuni accorpamenti (ad esempio tra i ministeri dell’Istruzione e della Cultura), alcune decisioni appaiono sorprendenti. Soprattutto tenendo conto della delicatezza di determinate questioni per una nazione come l’Ecuador, che da anni è teatro di battaglie ambientali e per i diritti.
Le preoccupazioni per ambiente, clima e popolazioni indigene
Ciò nonostante, Noboa ha deciso di sopprimere il ministero delle Donne e dei Diritti umani, nonché quello dell’Ambiente. Le funzioni di quest’ultimo saranno accorpate a quello dell’Energia. Una scelta che, secondo l’organizzazione non governativa Amazon Frontlines “smantella di fatto il sistema di monitoraggio ambientale dell’Ecuador, concentrando il potere proprio nell’istituzione che promuove le industrie petrolifere e minerarie, centrali nel piano di Noboa che punta ad attrarre investimenti stranieri e ripristinare la crescita economica”.
“Questi cambiamenti rappresentano un profondo indebolimento delle istituzioni pubbliche e un grave arretramento nei diritti, compresi quelli dei popoli indigeni. Ora le garanzie costituzionali che prevedono un consenso libero, preventivo e informato sulle scelte che li coinvolgono, una propria autodeterminazione, il diritto a godere dei territori ancestrali e la protezione delle tribù in isolamento volontario sono più vulnerabili che mai”, aggiunge il gruppo di attivisti.
Il peso del Fondo monetario internazionale sulle scelte di Quito
La domanda, di conseguenza, è: tali scelte erano davvero necessarie? La realtà è che a premere sull’Ecuador è soprattutto il Fondo monetario internazionale. Lunedì 21 luglio è stato infatti approvato un prestito da 600 milioni di dollari, che si aggiunge a quanto concesso in precedenza. In cambio, però, il Fmi chiede riforme e, soprattutto, rigore draconiano. E pazienza se la scure si abbatte su diritti, ambiente e clima: l’importante è far tornare i conti.
‼️ On July 24, Ecuador’s president Daniel Noboa eliminated the Ministry of the Environment, transferring its functions to the Ministry of Energy and Mines: the very institution responsible for promoting oil and mining. pic.twitter.com/qxvomilt42
— Global Alliance for the Rights of Nature – GARN (@garnglobal) July 26, 2025
Il petrolio, insomma, è certamente una leva economica gradita all’istituto finanziario. Di recente, la riapertura del principale oleodotto dell’Ecuador, il Sote, come confermato dalla compagnia pubblica Petroecuador, ha segnato il riavvio di un flusso quotidiano pari a 360mila barili. La nazione guidata da Noboa ne ha prodotti 475mila barili al giorno, nel 2025, e quasi tre quarti sono stati destinati alle esportazioni.
La soluzione troppo semplice e miope: rilanciare il petrolio
Di conseguenza, è naturale che il blocco del Sote (e di un secondo oleodotto che parte dall’Amazzonia) abbia provocato uno shock economico in Ecuador, con una contrazione della produzione di circa il 90 per cento. Alcuni esperti hanno stimato le perdite a circa 20 milioni di dollari al giorno. È chiaro anche che, numeri alla mano, riaprire i rubinetti del petrolio significa ripristinare un flusso di introiti fondamentale.
URGENT- on 24 July, @DanielNoboaOk eliminated Ecuador’s Ministry of #Environment, Water, and Ecological Transition, transferring its functions to the Ministry of Energy and Mines, the institution responsible for promoting oil drilling & mining.
Il problema è che quello stesso flusso è deleterio per il mondo intero. E per lo stesso Ecuador: le catastrofi provocate o esacerbate dal riscaldamento climatico non risparmiano il territorio sudamericano. Soltanto dall’inizio del 2025 i morti nel paese sono stati 52, mille le abitazioni distrutte e 61mila le persone colpite a vario titolo, secondo le stesse autorità di Quito.
All’Ecuador, così come al mondo intero, serve piuttosto un piano per poter vivere di altro, rispetto ai combustibili fossili. Altrimenti, ciò che si risparmia nel breve termine, dovrà essere pagato, a costi infinitamente più alti, sul lungo periodo.
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