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Negli allevamenti di pesce in India, la violazione dei diritti animali va di pari passo a quella dei diritti umani e all’inquinamento ambientale.
Vasche di pesci sovraffollate, inquinamento dell’acqua, uso inefficiente del suolo e sfruttamento minorile, questo il mix esplosivo che il team investigativo di Animal Equality ha documentato negli allevamenti intensivi e nei mercati di pesce dell’India.
Secondo Paese al mondo dopo la Cina per esportazione di pesce, nel 2020 l’India ha venduto all’Italia 22mila tonnellate di prodotti ittici, per un valore complessivo di 98,3 milioni di euro, secondo Eurostat. Dai dati della Commissione europea, l’Italia risulta tra i Paesi che consumano più prodotti ittici in Europa (31 kg pro capite l’anno, contro una media Europea di 24 kg), ma circa l’80 per cento dei prodotti consumati sono di importazione.
Questi numeri celano tuttavia violenza, pratiche illegali e un rischio ambientale elevato. All’interno di diversi allevamenti di pesci e gamberetti, nei vivai e nei mercati del pesce nel Bengala occidentale, Andhra Pradesh, Tamil Nadu e Telangana, l’indagine realizzata da Animal Equality mostra l’estrema sofferenza a cui milioni di pesci vengono sottoposti ogni giorno e la totale mancanza delle leggi sul benessere degli animali.
Le immagini raccolte testimoniano che migliaia di pesci vengono allevati in piccole vasche sovraffollate dove, a causa dello stress, i parassiti e le malattie dilagano. Immersi in un contesto malsano e soffocante, i pesci soffrono di aggressività e si causano lesioni fisiche, portando a una scarsa qualità dell’acqua che lascia loro una minore quantità di ossigeno per respirare. Per sopperire al problema, i pesci ricevono dagli allevatori mangime carico di antibiotici. Questo uso massiccio e non regolamentato si traduce però in un più alto livello di antibiotico-resistenza da parte dei consumatori. Non a caso, l’India è considerato uno dei Paesi con maggiore resistenza agli antibiotici al mondo.
Fuori dall’acqua, la condizione di questi animali non migliora. Il metodo tradizionale per uccidere i pesci d’allevamento, infatti, è asfissiarli lasciandoli fuori dall’acqua o sul ghiaccio provocando così una morte lenta e agonizzante. Catturati nelle reti e gettati nei contenitori, i pesci cercano disperatamente di fuggire e tornare in acqua, ma molti vengono schiacciati a morte dal peso di altri pesci. Altri subiscono una pratica atroce: un intervento crudele per ricavare le uova da pesci femmina consiste infatti nella loro spremitura a mano, la cosiddetta mungitura del pesce, che porta questi animali a soffrire di dolori e traumi inimmaginabili fino al loro completo decesso.
Alcune specie di pesci vengono mantenute in vita e macellate al mercato. Qui il pesce viene venduto in condizioni del tutto antigieniche. Gettati in contenitori e ricoperti di ghiaccio, le ultime ore di vita di pesci, gamberetti e crostacei consiste nel soffocare lentamente. Le loro branchie, intanto, vengono tagliate senza stordimento, provocandone il dissanguamento quando ancora pienamente coscienti. Eppure, in India una legge che dovrebbe impedire questa violenza gratuita esiste: l’obiettivo della Legge del 1960 per la Prevenzione della crudeltà sugli animali, infatti, è quello di evitare l’inflizione di dolore o sofferenza non necessari.
A rendere ulteriormente grave la situazione, subentra lo sfruttamento dei minori all’interno dei mercati. L’indagine rivela che dei bambini sono stati visti macellare i pesci colpendoli ripetutamente con una mazza. Studi scientifici hanno dimostrato che i bambini esposti a tali atti di crudeltà vengono desensibilizzati alla sofferenza altrui. Questa pratica può dunque essere considerata una violazione delle leggi che proibiscono il lavoro minorile nonché una violazione dei diritti umani.
Accanto a queste violenze nei confronti degli animali, c’è anche quella nei confronti dell’ecosistema. L’indagine riporta che i pesci catturati in natura vengono nutriti con altri pesci d’allevamento contribuendo così a un rapido esaurimento della varietà selvatica dei pesci di mari e fiumi. A questo si aggiunge che circa il 25 per cento del pesce catturato in natura viene utilizzato come farina, impoverendo la biodiversità.
L’uso inefficiente delle risorse idriche è un ulteriore problema che aggrava la sicurezza delle regioni dove l’indagine è stata svolta. Gli allevamenti ittici usano grandi quantitativi d’acqua che provengono da fiumi come Krishna, Godavari e Kaveri. Una tipica vasca da allevamento di oltre 4 mila metri quadrati con una profondità di un metro e mezzo richiede 6 milioni di litri per singolo riempimento che avviene pompando acqua da questi corsi fluviali. Considerando l’incombente minaccia dei cambiamenti climatici, il rischio che questi fiumi finiscano per prosciugarsi o cambiare il loro corso nel prossimo futuro è concreto e significherebbe una drastica riduzione della falda acquifera del territorio. Il fatto che migliaia di ettari di terreno fertile vengano convertiti in spazi di vasche da allevamento di pesce riduce inoltre la loro resa agricola rendendo in questo modo critiche le condizioni di approvvigionamento della popolazione locale.
A causa degli allevamenti intensivi, l’inquinamento delle acque e il degrado del suolo sono fenomeni sempre più imminenti. Questa lunga catena di sofferenza e impatto ambientale arriva nei nostri supermercati, fino al nostro piatto, ogni giorno, ma le sue conseguenze non si fermano qui. Si tratta di un circolo vizioso che innesca ulteriori violazioni dei diritti per la protezione animale su scala globale e con essa nuovo inquinamento e alterazione dell’ecosistema. Interrompere questo processo deve pertanto essere una priorità.
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