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A novembre Francesco Magistrali è partito per la spedizione Walking South America attraverso Cile, Argentina e Uruguay. Qui ci ha raccontato il suo viaggio.
L’avevamo salutato lo scorso novembre, qualche giorno prima della partenza per la sua spedizione Walking South America: Francesco Magistrali, esploratore piacentino di 43 anni, ci aveva spiegato come si era preparato a percorrere 3mila chilometri a piedi in Sudamerica, da solo, in sei mesi di tempo, attraverso Cile, Argentina e Uruguay, e per quale scopo aveva deciso di compiere questo viaggio. Un’avventura a Impatto Zero che LifeGate ha valorizzato compensando le emissioni di CO2 tramite crediti generati da interventi di creazione e tutela di foreste in Madagascar. L’abbiamo ricontattato dopo il suo rientro in Italia, avvenuto lo scorso 7 maggio – circa un mese in anticipo rispetto al previsto a causa della pandemia mondiale di Covid-19 – per farci raccontare com’è andata.
Partiamo dalla fine… Ci racconti come hai vissuto l’emergenza sanitaria dall’altra parte del mondo e quando hai deciso di rientrare?
Da qualche settimana seguivo le notizie provenienti dall’Italia, poi è arrivato il primo caso di Covid-19 in Uruguay, dove mi trovavo in quel momento: avevo conosciuto un’importante famiglia di proprietari terrieri del Paese che si erano offerti di ospitarmi nel loro ranch per studiare la vita dei gauchos uruguayani. Scattato il lockdown, mi hanno trasferito al sicuro in una casa, sempre di loro proprietà, in una piccola cittadina di nome Young dove sono stato per due mesi. Trascorso questo periodo avevo due opzioni: aspettare che riaprissero il confine tra Uruguay e Argentina per continuare il viaggio oppure tornare a casa. Ho dovuto optare per la seconda.
Si può dire che il periodo di lockdown abbia reso meno brusco il passaggio tra il viaggio e il ritorno a casa, concedendoti di vivere in una sorta di limbo spazio-temporale utile per raccogliere i pensieri?
Certamente. Mi trovavo all’estero, in una casa non mia, completamente solo, e ci ero arrivato dopo un viaggio tra il deserto di Atacama e le Ande, ma non ho vissuto negativamente questo momento, anzi, l’ho accolto come il completamento del lungo silenzio da cui provenivo dopo giorni e giorni di viaggio in piena natura. Ho dedicato il mio tempo alle riflessioni, alla lettura e allo studio e anche a qualche telefonata e intervista.
Tornerai in Sud America per terminare la spedizione?
Non so quando, ma l’idea è quella di concludere l’itinerario che avevo programmato. Ho dovuto rinunciare a una parte importante del viaggio, quella nel Gran Chaco argentino dove tra l’altro avrei dovuto raccogliere alcuni campioni delle acque del Rio Bermejo da consegnare al Cnr per lo studio dell’inquinamento da microplastiche. In attesa di tornare in Sud America cercherò di raccogliere da qui delle informazioni utili con l’aiuto di alcuni contatti (biologi, esperti di clima, agronomi, tecnici del suolo) che ho raccolto tra le università di Salta e dell’Uruguay.
Cosa ti porti dietro da questo viaggio?
Ho ancora negli occhi il deserto di Atacama che sfocia nell’altipiano andino, un paesaggio caratterizzato da profondi silenzi e da orizzonti che sfuggono alla vista. Un contesto che ti porta inevitabilmente alla meditazione interiore – questo più di altri è stato anche un viaggio interiore – e che rende ancora più forti i momenti d’incontro. Mi porto dietro, infatti, anche un bagaglio umano che contiene tutte le amicizie nate on the road. In particolare ricordo l’incontro con i gendarmi al confine tra Argentina e Uruguay, un confine che in pratica non esiste perché non ci passa mai nessuno. Sono spuntato dal nulla con il mio carrettino e i poliziotti, che probabilmente non vedevano persone da molto tempo, mi hanno subito accolto, mi hanno offerto la cena e un posto per dormire, mi hanno chiesto di raccontarmi e si sono raccontati. Siamo in contatto, ancora adesso, a distanza di mesi, grazie a Whatsapp: una cosa impensabile fino a qualche decennio fa.
C’è qualcosa di quello che hai visto che invece non ti è piaciuto?
Purtroppo in Uruguay gran parte del territorio è ormai occupato dai grandi allevamenti e dalle coltivazioni estensive di mais e di riso, un tipo di agricoltura che utilizza molta chimica che produce inquinamento del suolo e delle acque. Il bosco nativo è stato cancellato dalla monocoltura di eucalipto utilizzato per produrre cellulosa.
Qual è il messaggio che vorresti trasmettere con la tua esperienza?
Vorrei dire che è ancora possibile visitare un mondo quasi ancestrale, con un ritmo completamente diverso dai nostri contesti urbani, un mondo dove le persone hanno un legame forte (e spesso inconsapevole) con il territorio e con la natura. Vorrei dire che è possibile conciliare queste realtà con la nostra, prendendo il meglio di entrambe e creando il mondo ideale.
Per esempio?
Certe popolazioni sono custodi di saperi antichi e di un rapporto con la natura che noi invece abbiamo in gran parte perso, mentre dalla nostra parte abbiamo la tecnologia, uno strumento che se usato in modo positivo può farci fare cose incredibili.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Con il progetto Beyond Exploration vorrei fare viaggi dedicati sempre più all’incontro con l’altro, agli aspetti antropologici e sociali. In Uruguay ho visto da vicino la vita dei gauchos che governano enormi mandrie di mucche grazie a conoscenze antiche che posseggono spesso inconsapevolmente. Li ho visti lavorare per giorni spostandosi a cavallo da un luogo all’altro e sistemandosi in accampamenti improvvisati attorno a un falò, proprio come in un film western.
Ti lascio con una provocazione: non pensi che ci sia il bisogno di incontri veri anche fuori dalla porta di casa, senza andare per forza dall’altra parte del mondo?
Certamente. In questi giorni sto concludendo un lavoro che mi aveva portato in Amazzonia tra il popolo dei Guaranà, ma che inizialmente era partito con l’idea di incontrare gli abitanti dei borghi dimenticati dell’Appennino piacentino. Che sia dietro casa o in Sud America, l’approccio è esattamente lo stesso.
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