Sono 320 i giornalisti in carcere nel mondo, sempre di più

L’allarme del Comitato per la protezione dei giornalisti. Cina, Myanmar, Bielorussia i più repressivi, Israele dopo il 7 ottobre. In Iran a rischio le donne.

  • Sono 320 i giornalisti in carcere in tutto il mondo, secondo il censimento del Comitato per la protezione dei giornalisti.
  • Cina, Myanmar, Bielorussia sono i paesi più repressivi, ma cresce Israele dopo i fatti del 7 ottobre.
  • In Iran i giornalisti in carcere sono in calo, ma aumenta la repressione legata alle proteste per i diritti delle donne.

Nel linguaggio del mondo dell’informazione, il giornalista si auto-definisce talvolta gatekeeper, colui che ha il potere di sorvegliare quella porta d’ingresso che proietta le notizie nell’opinione pubblica, selezionando le questioni più rilevanti. Ma sempre più spesso sono proprio i giornalisti a finire nelle mani di gatekeeper ben più potenti: gli Stati che sorvegliano il flusso delle notizie mettono i giornalisti in carcere se diffondono news a loro sgradite.

Il panorama del giornalismo globale continua a essere scosso da un’escalation preoccupante di repressione e incarcerazione, come evidenzia il nuovo censimento carcerario del 2023 del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj). Dati che sottolineano un oscuro trend autoritario che minaccia non solo la libertà di stampa, ma anche la stessa essenza della democrazia in molte parti del mondo. Al 1 dicembre 2023, secondo Cpj, erano 320 i giornalisti in carcere in tutto il mondo, il secondo dato più alto dal 1992, quando è iniziato il monitoraggio.

I giornalisti in carcere in Israele sono tutti palestinesi

Uno dei risultati più rilevanti del rapporto è l’ascesa di Israele tra i principali carcerieri di giornalisti al mondo: l’unica democrazia del Medio Oriente è salita al sesto posto, insieme all’Iran. Questo cambio di scenario è avvenuto in seguito all’inizio della guerra Israele-Gaza il 7 ottobre, con un aumento significativo delle incarcerazioni di giornalisti palestinesi nella Cisgiordania occupata. La maggior parte di questi detenuti si trova in detenzione amministrativa, un meccanismo che consente il prolungamento della prigionia senza accusa formale, spesso basato sul presupposto di possibili reati futuri, in pieno stile Minority Report.

Nonostante le difficoltà nel reperire informazioni dettagliate sulle accuse mosse ai giornalisti, il Comitato per la protezione dei giornalisti sospetta che molti siano stati incarcerati per le loro attività sui social media.  Al 1 dicembre 2023, Israele deteneva almeno 17 giornalisti, un aumento significativo rispetto agli anni precedenti, e tutti i giornalisti detenuti da Israele alla data del censimento del Cpj sono stati arrestati nella Cisgiordania occupata dopo l’inizio della guerra, ovvero negli ultimi 4 mesi.

Iran: donna, vita, prigione

L’altro focus del report di Cpj è proprio sull’Iran, che se da un lato ha mostrato una riduzione nel numero di giornalisti incarcerati rispetto al 2022 in termini, con 17 detenuti, ha risposto alla copertura delle proteste guidate dalle donne al grido di “donna, vita, libertà” con un’ulteriore repressione, puntando alcune figure giornalistiche di spicco, comprese numerose giornaliste donne: 8 su 17, una percentuale molto alta.  Tra loro Niloofar Hamedi e Elahe Mohammadi, tra i primi giornalisti a riferire sulla morte di Amini nel settembre 2022.

Condannate rispettivamente a 13 e 12 anni per accuse anti-statali legate alle loro denunce, alle due donne è stato permesso di lasciare il carcere su cauzione il 14 gennaio 2024 – dopo quasi 16 mesi dietro le sbarre – mentre la Corte Suprema iraniana esamina il loro appello. La giornalista freelance Vida Rabbani si trova nel carcere di Evin e sta scontando la prima di due condanne a 17 anni complessivi per la sua copertura di protesta. Questo dimostra che, nonostante una diminuzione nei numeri, la minaccia alla libertà di stampa persiste in Iran.

Altri contesti di repressione: dalla Cina alla Bielorussia

La Cina rimane il paese con il maggior numero di giornalisti in carcere, con 44 detenuti al momento del censimento. La repressione si è intensificata, specialmente contro giornalisti di etnia uigura nello Xinjiang, ben 19 su 44. In Myanmar e Bielorussia, la situazione è altrettanto allarmante, con un’erosione della libertà di stampa in seguito a eventi politici cruciali come le elezioni elettorali. In Bielorussia, la maggioranza dei giornalisti detenuti, il 71 per cento, deve affrontare accuse legate a presunti reati contro lo Stato. La repressione è iniziata nel 2020, durante le proteste di massa per la controversa rielezione del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko.

In Myanmar, i media indipendenti sono stati oggetto di repressione dopo il colpo di stato militare del febbraio 2021, quando la giunta si è mossa rapidamente per arrestare giornalisti, chiudere i notiziari e costringere i giornalisti all’esilio. Quasi tre anni dopo, i giornalisti continuano a essere presi di mira in base a una disposizione antistatale ampiamente utilizzata per criminalizzare “incitamento” e “notizie false”. A maggio, il fotoreporter Sai Zaw Thaike è stato arrestato mentre copriva le conseguenze del ciclone Mocha nel Myanmar occidentale e successivamente è stato condannato a 20 anni di carcere per sedizione – la pena detentiva più lunga inflitta a un giornalista dai tempi del colpo di stato. Russia, Vietnam, Eritrea, Egitto e Turchia sono gli altri – significativi – Paesi che completano questa classifica: paesi che in molti casi coincidono con dittature, presidenze autoritarie, democrazie deboli o mascherate.

Le conseguenze umane della repressione

Oltre alla detenzione, i giornalisti spesso affrontano condizioni carcerarie disumane, con gravi ripercussioni sulla loro salute fisica e mentale. Almeno 94 dei 320 giornalisti del censimento del 2023 – quasi il 30 per cento – hanno problemi di salute, sottolinea il rapporto. Molti non sono messi nelle condizioni di ricevere farmaci o accedere a consulti medici, mentre altri subiscono punizioni aggiuntive anche dopo aver scontato la loro pena, limitando la loro libertà futura e la capacità di svolgere il loro lavoro.

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