Giuditta Brattini. Gaza va aperta a giornalisti e testimoni, i crimini vanno documentati

La cooperante Giuditta Brattini è tornata a casa dopo essere stata il megafono da Gaza per settimane: “Avvengono violazioni quotidiane, è necessario che ci siano testimoni a raccontarle”.

Per diversi giorni, la sua è stata praticamente l’unica voce libera che ci è arrivata da Gaza. Con i suoi aggiornamenti audio ha raccontato l’evacuazione forzata di Gaza City, l’escalation dei bombardamenti, i blackout, le condizioni dei campi profughi, le violazioni del diritto internazionale. Ora che Giuditta Brattini, è tornata a casa, insieme agli altri cooperanti italiani e alla maggior parte degli stranieri presenti nella Striscia da prima del 7 ottobre, il racconto dell’assedio della Striscia da parte dell’esercito di Israele è un po’ più povero.

Un racconto asfittico, dominato dai numeri forniti dalla propaganda delle parti in causa, Hamas da un lato, Israele dall’altro, per via dall’inaccessibilità di Gaza alla stampa libera (tranne i coraggiosi reporter locali, 36 dei quali morti sotto le bombe), alle ong che tutelano i diritti umani, ad osservatori internazionali. È forse il cruccio principale che accompagna Giuditta Brattini, cooperante con oltre 20 anni di esperienza nella Striscia di Gaza, che con  l’associazione Gazzella si occupa tra le altre cose di adozioni a distanza dei bambini palestinesi feriti da armi da guerra. Quelle armi che, dal 7 ottobre, di bambini a Gaza ne stanno uccidendo uno ogni dieci minuti. Ne abbiamo parlato al telefono. 

Dottoressa Giuditta Brattini, innanzitutto bentornata: come si sente?
Sono molto confusa, ma nell’idea di rientrare c’era anche l’impossibilità stessa di poter operare per quello per cui ero lì. Non potevamo più muoverci sul territorio perché eravamo nel massimo dell’insicurezza, avremmo dovuto prendere un mezzo per portare gli aiuti umanitari, farlo registrare al consolato generale attraverso le forze di occupazione, comunicare ogni minimo spostamento giorno per giorno, come fanno Medici Senza Frontiere o la mia ong sanitaria palestinese di riferimento, Palestina medical relief society (le ong straniere molto spesso si affidano a partnership con associazioni locali, per poter essere più efficaci sul territorio, ndr). 

Non sareste comunque stati al sicuro, visto che bombardano anche le ambulanze e le auto dei civili…
Esatto. Ma se poi succede che occorre portare dei farmaci urgenti, o arrivare in una struttura ospedaliera per portare dei feriti, è impossibile comunicare il percorso in anticipo. Nel momento in cui ci sono bombardamenti, la tua sicurezza non è garantita. Ma tornerò appena sarà possibile. 

Gaza
Un medico ferito a Gaza © Abed Zagout/Anadolu via Getty Images

Israele dice che spesso su queste ambulanze, e all’interno degli ospedali, ci sono in realtà miliziani di Hamas. 
Questa è non è una novità, è l’invenzione storica di Israele, lo hanno detto nel 2014 (l’operazione Confine protettivo, ndr), nell’altra importante aggressione del 2008-2009.(l’operazione Piombo fuso).  Intanto precisiamo una cosa: l’ambulanza ha il dovere di raccogliere i feriti, a prescindere dalla loro appartenenza, anche se è un combattente di Hamas. E poi Israele ha il dovere di provare che quelli a bordo siano miliziani. Ma bisogna anche descrivere l’ambiente: l’altro giorno le ambulanze sono state colpite davanti all’entrata principale dello Shifa Hospital, una struttura ospedaliera che comunque va già protetta di suo. Quando è stato bombardato l’ospedale battista di Al Ahli, molte delle vittime erano persone che si erano semplicemente rifugiate nelle vicinanze dell’edificio. Nei giardini, nel parcheggio: erano convinte di essere al sicuro perché vicine a un ospedale.  

Lo Shifa è uno dei due ospedali maggiori di Gaza, insieme al Quds, dei quali Israele ha chiesto l’evacuazione: medici e pazienti sono ancora lì?
Ma certo, sono ancora tutti lì perché è impossibile evacuare un ospedale. I medici si sono rifiutati di spostare i feriti. A parte che non sanno dove portarli: nella zona centrale e a sud di Gaza, come vuole Israele? Lì non ci sono ospedali in grado di di sostenere pienamente tutti i feriti, neanche in condizioni normali, figuriamoci oggi. E poi è il principio che non funziona, l’evacuazione di un ospedale non può essere fatta e non può essere richiesta, l’ospedale è un ambiente protetto dalle convenzioni. Ed ecco che tra l’altro la comunità internazionale su queste cose dovrebbe intervenire immediatamente e invece…  

Gli ospedali civili organizzati per prestare cure ai feriti, ai malati, agli infermi e alle puerpere non potranno, in nessuna circostanza, essere fatti segno ad attacchi; essi saranno, in qualsiasi tempo, rispettati e protetti dalle Parti belligeranti. (Art. 18 Convenzione di Ginevra
per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, 1949)

Ha la sensazione che in questo conflitto ci siano cose che si possano dire con più difficoltà di altre? Che si usi un doppio standard, in pratica?
Il punto è che dentro Gaza ci deve essere chi dà le informazioni, reporter e giornalisti. Finché Israele chiude le porte e uccide sotto le bombe quei giornalisti di Al Jazeera e palestinesi che erano già a Gaza prima del 7 ottobre, non c’è nessuna possibilità di verificare come operano i medici, le difficoltà che ci sono, la mancanza dei farmaci, delle anestesie, delle apparecchiature sanitarie. Se tu non dai la possibilità di dare un’informazione testimoniata, quello che Israele non vuole, allora puoi dire quello che vuoi.  

Pensiamo al caos informativo sul bombardamento dell’ospedale Al Ahli..
Voglio soffermarmi su questo, sul significato di un’informazione fatta da testimoni diretti, dalle persone che hanno titolo a farlo. Creare il contraddittorio tra due testimoni va bene, se sono due persone che sono lì, che hanno visto. Ma se l’informazione è univoca, come fa Israele, la prima informazione che passa è quella che rimane. Non va bene. Dal mio punto di vista, dubito che un missile di Hamas possa fare i danni che ha fatto quello che ha colpito l’Al Ahli: ha fatto 600 morti, se un missile di Hamas colpisce un’abitazione in Israele ci vuole molta sfortuna perché faccia anche solo una vittima. Invece vedete i danni che stanno facendo i bombardamenti di Israele, uno dei Paesi più potenti del mondo.  

Dopo l’attacco al centro profughi di Jabalya, cui ne sono seguiti anche altri, anche le Nazioni Unite hanno iniziato a parlare di “possibili crimini di guerra”. Nei tuoi audio da Gaza hai già usato quel termine, oggi preferisci parlare di “violazioni”. Perché?
Può sembrare facile per me risultare troppo di parte, ma quando certe cose le hai viste, parole come “crimine”, “genocidio”, ti escono facilmente, spinte dall’esasperazione. Ma forse non spetta a me pronunciarle. Sono termini forti, e sappiano bene che devono esserci delle indagini internazionali, che possono durare anni, per arrivare a questo. Siccome mio malgrado sto assumendo il ruolo di colei che racconta, devo essere credibile. Non voglio sminuire quel che sta accadendo, al contrario: voglio che venga provato. E non voglio essere strumentalizzata.  

E siamo al punto di prima: i testimoni. 
Sì. È questo che Israele non vuole: come faccio a provare la violazione del diritto internazionale? Facendo sì che i testimoni possano entrare, facendo sì che ci siano operatori di ong per i diritti umani, giornalisti che possono essere presenti. Questo ti porta a determinare se c’è stata una violazione, quindi il conseguente crimine o genocidio. 

Quali sono le cose più gravi che hai visto, che ti hanno portato a quell’esasperazione di cui parlavi?
La gente che scappa perché ha avuto la comunicazione che avrebbero bombardato la propria casa o le case adiacenti. Il terrore negli occhi, in particolare dei bambini tenuti per mano dalle mamme, dai papà, con un sacchetto in mano o al massimo un piccolo trolley che corrono per queste strade già piene di polvere. Io vorrei provare a far mettere voi nella condizione di abbandonare tutto alla ricerca di un posto sicuro. I rifugi negli ospedali che possono essere solo temporanei, e ogni giorno la stessa domanda: “Domani che faccio?”. E il giorno dopo muoversi per andare magari in una scuola, nel centro e nel sud di Gaza, al sicuro. Ma poi sappiamo bene che a gente che si spostava dal nord della Striscia di Gaza ulla strada del mare è stata bombardata lo stesso. Non ci sono corridoi umanitari.  

La distruzione provocata dai bombardamenti di Israele a Gaza
Una immagine dell’esercizio di Israele del proprio diritto a difendersi © Ahmad Hasaballah/Getty Images

Neanche i centri dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi sono sicuri, come abbiamo visto, però almeno lì c’è una distribuzione di pasti. Chi ne sta fuori come trova da mangiare oggi a Gaza?
Mi ha molto molto angosciato vedere la popolazione che andava a portare via i sacchi della farina all’interno dell’Unrwa perché avevano fame. Gli ultimi bombardamenti di Israele hanno bombardato supermercati, negozi, alimentari, non ci sono più cibi freschi. Anche perché comunque senza gasolio non si può neanche cucinare. Oramai la gente vive di scatolette: carne, tonno, fagioli. Dentro i centro, l’Unrwa distribuisce un basket food quotidiano, ma non so fino a quando sarà in grado se non entrano gli aiuti. Comunque è un regime alimentare non sufficiente.  

Dal 7 ottobre sono morti anche almeno 60 membri dello staff dell’Unrwa, ovvero personale delle Nazioni Unite: è un dato sconvolgente,  in altri contesti ci sarebbe stato tanto scalpore per molto meno. Perché stavolta no?
Perché è personale palestinese, colpito magari mentre faceva la spesa per i pasti. Fosse morto un dipendente americano avrebbe fatto più notizia invece essendo cittadini palestinesi vanno a ingrossare il numero di persone di Gaza che Israele nel suo progetto deve eliminare. O relegare in una parte di territorio.  

Al di là di tutto, credi che sia un progetto destinato ad avere successo quello di spezzare in due Gaza?
Personalmente non penso che Israele ce la farà, perché la resistenza palestinese è nota da 75 anni, a prescindere da quella armata: il numero di persone che non ha voluto uscire da Jabalya, che non ha voluto abbandonare Gaza e la propria casa, è molto importante.  

Il premier israeliano Netanyahu però dice che le persone di Gaza Nord vorrebbero scappare ma sono bloccate da Hamas, che le usa come scudi umani.
Non è vero, chi è rimasto è consapevole. Proprio stamattina (domenica, ndr) ho saputo di una famiglia che ha dovuto abbandonare la casa, che poi è stata bombardata. Si sono spostati a Jabalya, presso la famiglia dei suoceri, e ora vivono in 95 persone in appartamenti attigui: volutamente hanno deciso di non andarsene. Dicono che se devono morire, moriranno nella loro casa e tutti insieme. Tanto non sarebbero al sicuro nemmeno in una scuola. Sarebbe una grande esperienza intervistare direttamente loro, ma purtroppo in questo momento li metterebbe in pericolo.  

Domanda difficilissima: quale potrebbe essere secondo lei una soluzione a tutto quello che sta succedendo, che non sia di quelle calate dall’alto di cui parla la comunità internazionale?
L’altra sera sono stata ospite in una trasmissione televisiva in cui dicevano che la soluzione è sedersi a un tavolo dove porre seriamente le basi, lasciando fuori la storia degli ultimi 75 anni di occupazione. Ho risposto che allora non dovremmo portare neanche la storia dell’Olocausto, che è quella che di cui cioè noi siamo impregnati da 80 anni… Ci sono due pesi, due misure, questo non è accettabile. La storia serve a non dimenticare ma è anche la base del futuro. Sediamoci a quel tavolo ma mettiamoci sopra tutto: la storia e non solo.  

Cos’altro?
I diritti. Che non possono essere quelli sanciti dalle Basic Laws (le leggi fondamentali di rango praticamente costituzionale approvate nel 2018, ndr) che definisce Israele nazione ebraica. È una vergogna per il diritto universale della persona, perché di fatto nega l’esistenza dell’altro. Se non sei ebreo, se non parli l’ebraico. non hai gli stessi diritti, e questo è inaccettabile. Non è una democrazia una patria del popolo ebraico, è uno stato di apartheid: l’arabo israeliano, che vive in Israele, non può andare nelle scuole pubbliche, non ha gli stessi diritti sui servizi pubblici. Di cosa stiamo parlando?  

Quando dice che la comunità internazionale non si sta muovendo, pensa alle sanzioni economiche?
Già la risoluzione Onu non serve a niente perché sappiamo bene che è carta straccia, una condanna scritta ma comunque non applicabile. Certo una sanzione non è risolutiva, ma almeno si danno dei segnali importanti. Invece nulla, al momento Israele ha semaforo verde.

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