
Secondo i dati dell’Ispra, dopo l’anno della pandemia, nel 2021 le emissioni climalteranti italiane sono tornate ad aumentare.
Giudizio universale, la prima causa climatica contro lo Stato italiano, è inammissibile per difetto di giurisdizione. Lo dice la sentenza di primo grado.
Le richieste di riconoscere l’inadempienza dello stato italiano nei confronti dei suoi stessi impegni per il clima, e di obbligarlo ad abbattere le proprie emissioni di gas serra, sono “inammissibili per difetto assoluto di giurisdizione del tribunale adito”. Si chiude così, con un nulla di fatto, il primo grado di giudizio della causa Giudizio universale, intentata da una coalizione di associazioni e individui per obbligare l’Italia ad agire per il clima.
I cosiddetti contenziosi climatici, climate litigation in inglese, non sono una novità. Si tratta di azioni legali che puntano a imporre a governi o aziende di tagliare le proprie emissioni di gas serra, secondo quanto richiesto dalla scienza. L’esempio più celebre – e di successo – arriva dai Paesi Bassi, dove la ong Urgenda ha ottenuto una storica vittoria contro il governo, arrivando fino alla Corte suprema.
La campagna Giudizio universale, nata nel 2020, si inserisce proprio in questo solco. Vede riuniti 203 attori, 24 associazioni e 179 individui, che hanno fatto causa allo stato italiano per inazione climatica. Una causa reale, non simbolica. I ricorrenti avanzano due richieste ben precise al giudice: dichiarare inadempiente lo stato italiano nel contrasto all’emergenza climatica e condannarlo a ridurre le emissioni del 92 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Portano a supporto delle loro argomentazioni una nutrita documentazione sulle conseguenze dei cambiamenti climatici, sulla vulnerabilità dell’Italia e sugli accordi internazionali che la vincolano ad agire in modo molto più incisivo di quanto non abbia fatto finora.
Dopo più di due anni e mezzo di udienze e migliaia di pagine di documentazione prodotta, la seconda sezione del Tribunale civile di Roma ha pubblicato la sentenza di primo grado. In cui afferma, in sostanza, che le richieste sono inammissibili perché il tribunale non ha competenza per esprimersi su queste tematiche. O meglio, che in Italia non esistono tribunali in grado di farlo.
“Si tratta di un’occasione persa per le istanze sociali e ambientali nel nostro paese”, commenta Marica Di Pierri, portavoce dell’associazione A Sud, capofila dell’iniziativa Giudizio universale. “Ma la volontà di non esprimersi del tribunale di Roma non comporta che non ci siano i presupposti per una condanna dello stato. Secondo il tribunale nessun giudice italiano può tutelare i diritti fondamentali minacciati dalla inefficienza delle politiche climatiche dello stato, come avvenuto in molti paesi europei. È una scelta di retroguardia. Non possiamo negare di essere delusi dall’esito del processo ed è certo che impugneremo la decisione.”
Il team legale che ha seguito la causa sostiene che ci siano valide argomentazioni per poter impugnare la sentenza. Da un lato, infatti, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Cedu “non contemplano limiti di accesso al giudice nelle questioni climatiche, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di numerosi Stati europei”. Reputano inoltre che la sentenza sia “contraddittoria, perché, da un lato, riconosce la gravità e urgenza letale dell’emergenza climatica, dall’ altro, però, statuisce che in Italia non esisterebbe la possibilità di rivolgersi a un giudice per ottenere tutela preventiva contro questa situazione, nonostante siffatta tutela sia stata riconosciuta dalla Corte costituzionale”.
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