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Una causa intimidatoria per fermare chi lotta per la difesa delle risorse naturali e contro le giganti del petrolio. È quanto sta vivendo Greenpeace per le proteste contro il Dakota access pipeline.
Questa storia è fatta di colpi di scena continui, di conquiste e di sconfitte, di gioia e di paura. Di cambi di rotta (improvvisi o previsti) causati dagli altrettanti cambi di colore alla Casa Bianca che hanno condizionato l’anima degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni. Da Barack Obama a Donald Trump. Ma chi è il protagonista di questa storia? È l’oleodotto Dakota access (Dapl, Dakota access pipeline) voluto dalla società Energy Transfer (ET) che per anni, cioè a partire dal 2014 quando l’inquilino della Casa Bianca era Barack Obama, è stato sotto i riflettori per aver avuto il merito di dar vita a una delle manifestazioni per la protezione dell’ambiente e contro lo sfruttamento dei combustibili fossili meglio organizzate e partecipate degli Stati Uniti d’America.
Il Dapl è un’infrastruttura mastodontica, un oleodotto lungo quasi 1.900 chilometri creato per trasportare petrolio dai giacimenti di Bakken che si trovano nel Dakota del Nord e che prendono il nome da una roccia di età paleozoica chiamata per l’appunto bakken, fino all’Iowa, passando per il Dakota del Sud. Questi giacimenti hanno contribuito a trasformare la politica energetica statunitense e hanno spinto le varie amministrazioni, democratiche e repubblicane, a rilanciare l’industria petrolifera federale e portando Washington a diventare il primo produttore di petrolio al mondo. Un primato che è stato raggiunto nel 2019 sotto il primo mandato di Donald Trump, ma che è stato consolidato sotto Joe Biden. È sotto la sua presidenza, peraltro, che è stato battuto il record assoluto di produzione con quasi 13 milioni di barili di petrolio greggio al giorno. Correva l’anno 2023.
Questi giacimenti, però, hanno avuto anche il merito di dar vita – a partire dal 2016 – a un movimento di protesta guidato dai nativi americani sioux che popolano la riserva Standing Rock, nel Nord Dakota. Nativi che, fin da principio, hanno lottato per la difesa delle loro terre ancestrali. Ma soprattutto delle loro acque, già perché i water protectors, così son stati ribattezzati, hanno cercato di salvaguardare soprattutto le acque dolci presenti nella zona, a partire da quelle che scorrono nel fiume Missouri.
Una lotta inizialmente locale, ma che in poco tempo è diventata internazionale, ispirando altre comunità a fare altrettanto e spingendo decine di migliaia di persone a unirsi alla loro protesta, seppur remota. Tra accampamenti, sgomberi, arresti e conquiste, i lavori dell’oleodotto si sono trascinati fino ad arrivare a compimento nel giugno del 2017, grazie all’accelerata impressa da Donald Trump nei primi mesi del suo insediamento.
Un’accelerata che – come ormai siamo abituati a subire – ha fatto carta straccia delle decisioni prese in precedenza (in particolare dello stop temporaneo ai lavori voluto da Obama per consentire una revisione ambientale dell’intero progetto) e che è stata anche più volte contestata dalla giustizia che ha messo in guardia dall’impatto negativo sulla riserva di Standing Rock. La Energy Transfer ha più volte fatto ricorso, ma anche la corte Suprema, nel 2022, ha respinto la richiesta sostenendo che una nuova valutazione d’impatto ambientale che ipotizzasse nuovi percorsi – meno impattanti per la riserva e le sue risorse – fosse necessaria.
Nonostante questo, l’oleodotto ha continuato a trasportare petrolio in modo illegittimo e ora, al danno, si aggiunge la beffa. Già perché la ET, non contenta del fatto che il suo petrolio continui a scorrere nelle vene metalliche degli Stati Uniti, ha deciso di togliersi qualche sassolino e di far causa anche a chi, in questi anni, si è battuto per un bene comune e prezioso come l’acqua, rallentando il flusso di oro nero. In particolare, ha pensato di fare causa a Greenpeace USA accusandola di aver guidato le proteste, di averle fomentate pur di ritardare i lavori in modo “illegale e violento” e che potrebbe – nel caso peggiore – costringere la ong a pagare fino a 300 milioni di dollari di risarcimento.
Una cifra enorme, che porterebbe Greenpeace alla bancarotta. Un’opzione inaccettabile per una realtà che, in oltre cinquant’anni di storia, ha contribuito a rendere il pianeta un posto migliore. Anche se Greenpeace nega ogni accusa, compresa quella di aver coordinato le proteste, a preoccupare oggi è il clima politico a livello federale e il fatto che il processo – cominciato ieri e che dovrebbe concludersi nell’arco di cinque settimane – si tenga in uno stato conservatore come il Dakota del Nord.
Doug Burgum, governatore dello stato fino al mese scorso, è oggi segretario degli Interni nell’amministrazione Trump. Burgum è colui che controlla alcune agenzie federali come il Bureau of indian affairs, cioè l’ente che gestisce i territori destinati alle popolazioni dei nativi americani, come la riserva Standing Rock, e poi il servizio geologico (Usgs) e quello dei parchi nazionali. Insomma, indizi che portano Greenpeace a temere che il processo possa svolgersi in un contesto a dir poco condizionato.
Una storia che speriamo possa concludersi in fretta e senza colpi di scena. Ma che – in un mondo al contrario – rischia di privare la Terra e i suoi abitanti di una realtà che ha fatto la storia dell’Umanità. Quella con la U maiuscola.
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