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Un’indagine di Essere Animali negli allevamenti ittici in Grecia mostra gabbie sovraffollate, larga diffusione di malattie e metodi di uccisione cruenti. Da qui proviene più della metà di branzini e orate che compriamo in Italia.
Negli ultimi anni il consumo pro capite di prodotti ittici in Italia è cresciuto in maniera esponenziale, raggiungendo il picco di 31,1 chili nel 2016. Si tratta di un dato sorprendente e ben al di sopra sia della media dell’Unione europea (24,3 chili) che di quella mondiale (20,3 chili). Sempre nello stesso anno, secondo l’ultimo rapporto Fao, l’acquacoltura ha rappresentato il 53 per cento della produzione globale di pesce, superando la pesca come fonte di approvvigionamento principale di prodotti ittici destinati a consumo umano diretto. Tuttavia, la realtà dei pesci allevati a scopo alimentare è ancora scarsamente conosciuta. Per questo motivo, Essere Animali ha diffuso una nuova indagine con l’obiettivo di svelare nuovamente cosa si nasconde dietro l’industria della produzione ittica.
La nostra ultima investigazione è stata realizzata in Grecia, nazione da cui proviene più della metà delle importazioni italiane di branzini e orate. I nostri investigatori si sono recati nella zona di Sagiada e, muniti di telecamere nascoste, hanno visitato diversi allevamenti che riforniscono note realtà della grande distribuzione italiana. Il pesce che proviene da questa area viene venduto a metà del prezzo di quello allevato in Italia: le gabbie, infatti, sono collocate a ridosso della spiaggia proprio per ridurre i costi di manutenzione.
Lungo un tratto di costa di soli 18 chilometri, abbiamo documentato la presenza di 26 allevamenti diversi, ciascuno con numerose gabbie al cui interno sono stipati decine di migliaia di pesci. Un operatore della zona ammette che l’alta concentrazione di impianti favorisce la diffusione di malattie da una struttura e all’altra. Antibiotici e antiparassitari sono somministrati con regolarità anche ai pesci sani, poiché vivono a stretto contatto con gli individui malati nella stessa gabbia.
Branzini e orate sono confinati in gabbie spoglie e sovraffollate dove, in assenza di stimoli, trascorrono una vita intera a nuotare in cerchio, senza poter soddisfare i loro bisogni etologici. Abbiamo documentato esemplari del peso di 2 chili rinchiusi in questi ambienti monotoni addirittura per un periodo di sei anni. Elevate densità di allevamento sono fonte di stress cronico per i pesci, oltre a peggiorare la qualità dell’acqua e a favorire la diffusione di batteri e parassiti.
Inoltre, l’acquacoltura ha un impatto negativo non solo sul benessere di mare e oceani, ma anche sulle popolazioni ittiche selvagge: branzino e orata, come la maggior parte delle specie allevate a scopo alimentare, sono pesci carnivori. Per produrre un chilo di orata, per esempio, sono necessari fino a due chili di mangime composto principalmente da farina e olio di pesce, la cui produzione dipende massicciamente dalle catture di pesce selvatico.
L’uccisione è il momento in cui ai pesci è riservato il trattamento più brutale e disumano. I nostri investigatori hanno assistito alla cattura di branzini e orate che si dimenano nel tentativo di fuggire. Ammassati uno sopra l’altro all’interno di reti, in assenza di acqua boccheggiano e vengono schiacciati dal peso degli altri pesci intrappolati nelle reti. Infine, vengono gettati in contenitori di acqua e ghiaccio, dove si contorcono per interminabili minuti prima di morire di congelamento e asfissia.
L’immersione in acqua e ghiaccio senza stordimento preventivo è una procedura che causa sofferenza ingiustificata nei pesci. Si tratta di una pratica di macellazione che l’Organizzazione mondiale della sanità animale (Oie) considera inadeguata. Di conseguenza, il suo impiego costituisce una chiara violazione delle norme internazionali dell’Oie. Ciononostante, un recente rapporto della Commissione europea ha evidenziato che l’asfissia in acqua ghiacciata è la morte più comune per branzini e orate nella quasi totalità degli allevamenti ittici degli Stati membri dell’Ue. L’Italia non fa eccezione, in una precedente indagine diffusa ad ottobre 2018 abbiamo documentato lo stesso trattamento in diversi allevamenti intensivi di pesci del nostro Paese.
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Con la campagna #AncheiPesci vogliamo che sia riconosciuto il valore della vita di milioni e milioni di pesci allevati a scopo alimentare. Per questa ragione, chiediamo alla grande distribuzione italiana di adottare policy di allevamento più severe che garantiscano una maggiore tutela del loro benessere e che contribuiscano a ridurre la loro sofferenza.
Le catene di supermercati, grazie al loro potere di acquisto, possono avere un ruolo decisivo nell’influenzare i metodi di allevamento della propria filiera produttiva. Il ruolo di noi consumatori, di conseguenza, è duplice. Oltre a chiedere con urgenza alla gdo di intraprendere questi cambiamenti, possiamo iniziare a farci domande sulle nostre abitudini alimentari. Alcuni spunti per le risposte sono contenute nel sito della campagna #AncheiPesci dove, oltre ai video delle nostre indagini, sono raccolte le informazioni sulle problematiche dell’acquacoltura, ma anche sull’etologia di questi animali, poco rispettati anche perché ancora poco conosciuti.
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