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Ken Saro-Wiwa, militante ecologista, si batté contro la multinazionale petrolifera Shell. La storia gli ha dato ragione: la sua terra, oggi, è devastata.
Il 10 novembre 1995 il militante ecologista nigeriano Ken Saro-Wiwa veniva ucciso, al termine di un processo considerato una farsa da buona parte della comunità internazionale e delle organizzazioni che difendono i diritti umani. Saro-Wiwa, scrittore e poeta, aveva denunciato i gravi problemi ambientali causati dallo sfruttamento petrolifero nel delta del Niger.
La constatazione più triste, a più di vent’anni di distanza, è che i rischi denunciati dall’attivista si sono trasformati in realtà: la popolazione locale è sempre più colpita da problemi di salute, e vive in condizioni di miseria, circondata da oleodotti e piattaforme petrolifere. Come riportato dall’Osservatorio francese sulle multinazionali, infatti, “malgrado le promesse di bonificare le zone inquinate a causa delle attività di estrazione, la compagnia Shell continua ad incassare profitti il cui costo sociale e ambientale è pagato dalla popolazione”. “Viviamo in un inferno di povertà. La crescita della vegetazione e degli animali è bloccata. E i pesci sono morti”, raccontava nell’aprile del 2008 ad Amnesty International uno dei trenta milioni di abitanti della regione.
Uno studio scientifico realizzato in loco, nel 2011, dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) tracciava un quadro nefasto: per ripulire i danni causati dal petrolio ci vorrebbe una bonifica di trent’anni. La speranza di vita nella zona, inoltre, non supera ormai i 40 anni, e il 75 per cento della popolazione non ha accesso all’acqua potabile. “Nel frattempo – prosegue l’Osservatorio transalpino – Shell ha registrato profitti per 13 miliardi di euro nel 2014. In Nigeria gestisce cinquanta campi petroliferi e una rete di oleodotti, in molti casi vecchia e priva di adeguata manutenzione, lunga cinquemila chilometri. Le fughe di greggio registrate dal 2007 sono 1.500 secondo la stessa compagnia anglo-olandese. E molte di più secondo Amnesty”.
Saro-Wiwa sapeva che il futuro dei nigeriani sarebbe stato questo. Ebbe il coraggio di denunciare, a nome della minoranza ogoni, popolazione particolarmente colpita dalle attività dei petrolieri. Organizzò proteste, chiese risarcimenti al governo. Fondò un movimento, il Mosop, e riuscì ad organizzare manifestazioni popolari oceaniche. Fu arrestato una prima volta nel 1993, e poi liberato anche grazie alla pressione della comunità internazionale. Ma un anno più tardi finì di nuovo in manette, stavolta con l’accusa di istigazione all’omicidio: per questo fu condannato a morte, e impiccato nella prigione dov’era detenuto.
Accusata di aver spalleggiato il regime affinché Saro-Wiwa fosse giustiziato (assieme ad altri otto attivisti), Shell accettò nel 2009 di versare 15,5 milioni di dollari a titolo di risarcimento, al fine di chiudere un processo intentato presso un tribunale di New York. All’inizio del 2015, nell’ambito di un altro procedimento intentato nel Regno Unito, la compagnia ha accettato di pagare 84 milioni di dollari per risarcire i pescatori della regione di Bodo, colpiti da ripetute fughe di greggio nel 2008 e nel 2009 (nel video, l’appello di una militante registrato nel 2012). Ma nessuna cifra potrà mai risarcire fino in fondo la catastrofe ecologica.
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